Le pandemie si vincono «sul fronte»
Era a Napoli quando, nel 1973, scoppiò il colera. Ha viaggiato in Albania, nel 1996, per affrontare i focolai di poliomelite sparsi su quasi tutto il territorio (e per la stessa malattia,12 anni fa, ha guidato una task force nel Tagikistan). È volato in Uganda, nel 2000, in mezzo a quella terrificante epidemia di Ebola che spaventò mezzo mondo.In Italia, ha diretto il Laboratorio di epidemiologia e biostatistica e il Centro nazionale di epidemiologia all’Iss. E oggi fa parte del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19. Donato Greco, napoletano, 75 anni, “Socio onorario della Società Italiana d’Igiene”, di virus e batteri ne ha conosciuti parecchi, per un totale di quasi 60 epidemie. Tutte vissute sul campo. E molte le racconta nel libro appena uscito Le mie epidemie (edito da Scienza Express, 315 pagine, 21 euro) Lo abbiamo intervistato. Su germi «antichi» e nuovi nemici, come il Sars-CoV-2.
«Le mie epidemie» sembra un titolo quasi affettuoso per un evento così drammatico...
«Vede, dal 1973, quando ho iniziato a fare il mestiere di epidemiologo, ne ho studiate sul campo 58. Il messaggio che voglio far passare, perché fondamentale, è che non bastano, per affrontare epidemie o pandemie, dati statistici e analisi al computer, bisogna andare lì dove sono scoppiati i focolai infettivi, a parlare con la gente, gli ammalati. Solo così si può verificare concretamente qual è il rischio di ammalarsi di colera, per esempio, dopo aver mangiato delle cozze, o il rischio di contagiarsi con il Covid andando dal parrucchiere... Solo così si può fare prevenzione mirata e non generica, che serve a poco».
Qualche esempio di prevenzione poco basata su dati scientifici documentati?
«Il lockdown generalizzato, o la disinfezione della borsa della spesa, che si faceva nei primi mesi della pandemia».
Non mi dirà che i big data sono superflui...
«I big data sono una grande novità, certo che servono, tutti i giorni escono statistiche, pure in modo eccessivo. Abbiamo conteggiato nei casi di Covid anche i soggetti semplicemente positivi, fino all’altro ieri consideravamo casi clinici solo le persone con sintomi. I tamponi, che si facevano solo nei laboratori, ora li facciamo pure in cucina. Va bene. Viva i big data, ma continuiamo ad ascoltare la gente, dove è stata nei giorni precedenti, quale può essere la catena di trasmissione».
Non lo si fa abbastanza?
«Si dovrebbe fare di più. A fronte di un’abbondanza di analisi al computer e statistiche che sono descrittive ma non dicono qual è rischio di ammalarsi salendo su un autobus, per esempio. Agire sul campo è una tecnica di intelligence che non deve andare persa. E oggi lo possiamo fare in tanti modi: con i telefonini, con internet, parlando con i malati negli ospedali. Chiaro che richiede uno sforzo, indagini di questo tipo non si fanno in orari d’ufficio, chi paga lo straordinario se vado a casa dei pazienti la sera? Sono le rigidità del servizio sanitario italiano».
Tornando alle «sue» epidemie, quali sono state le più terribili, o le più istruttive?
«La nave scuola fu l’epidemia di colera a Napoli nel 1973, avevo 26 anni, mi ritrovai a lavorare con colleghi americani, un’iniziazione straordinaria. Anche Ebola fu un’epidemia terribile, si fecero tanti errori».
Per esempio?
«Non aver capito subito quanto fosse veloce il contagio, bastava toccare un malato. E poi anche l’epidemia di polio in Tagikistan, tremendo vedere tutti quei bambini paralizzati per la vaccinazione scaduta e le bugie del governo locale sovietico. Poveri bambini. In Albania l’epidemia di polio si diffuse, nel 1996, a un ritmo inversamente proporzionale al tempo impiegato a portare il vaccino nei centri colpiti. Era tristissima la sensazione di arrivare troppo tardi. E non sempre, comunque, l’epidemiologo è il primo a essere ascoltato».
In questi due anni di pandemia di epidemiologi, virologi, infettivologi se ne sono sentiti tanti, anche troppi a volte...
«In cinquant’anni di epidemie, dal colera in poi, le assicuro che c’è sempre stato il presunto esperto che andava in tv ad affermare chissà che, il collega che non vedeva ora di apparire. È una sorta di «malattia» cui molti non resistono. E poi bisogna dire che, di fronte a un virus che prima non esisteva e ha travolto tutto e tutti, gli uffici stampa istituzionali sono stati incapaci di rispondere adeguatamente alla domanda. Avendo oltretutto un budget ridottissimo, che è un trentesimo di quello di una industria dolciaria.
Dica una cifra.Il ministero investe nella comunicazione un paio di milioni l’anno, ridicolo. La comunicazione non è mancata sul piano scientifico, c’era anche una forte trasparenza dei dati si dal primo giorno, è mancata la comunicazione sul piano del dialogo. E non si è fermato il fenomeno degli esperti autoproclamati».
Lei nel libro scrive che si sono fatte anche cose francamente superflue per contrastare il Covid, quali?
«Per esempio la disinfestazione continua di oggetti e superfici, persino della borsa della spesa, al di là delle indicazioni tecniche. Questa voglia di igienismo è antica, durante il colera a Napoli fu fermato il mercato della frutta, che non c’entrava niente. Il presidente Leone venne in visita all’ospedale Cotugno con le telecamere dei giornalisti bardate con le garze-calze, eppure si sa che il colera non si trasmette da persona a persona. Nel caso del Covid, anche la misurazione a spot della temperatura, che il Cts ha abolito mesi fa, ancora la si controlla in molti luoghi».
Non serve sapere se qualcuno ha la febbre?
«Ma no, ha un potere predittitvo dello 0,02 per cento. Intercettare qualche linea di febbre alla gente che entra in un ambiente non ha molto senso, chi ha la febbre alta sta a casa, e la probabilità di individuare il caso con 37,5 che entra in quel momento è talmente bassa che non vale la pena. Serve di più farlo negli aeroporti. Non nel portone di un ufficio o all’entrata di un negozio».
Si fa abbastanza sorveglianza sul territorio per individuare i rischi di una prossima zoonosi?
«La sorveglianza fatta dagli Istituti di zooprofilassi in Italia è molto attiva, anche perché ben regolata da norme europee. C’è però ancora un’insufficiente comunicazione tra sorveglianza umana e animale, sono due sistemi che non dialogano abbastanza. Ma la salute è una sola, infatti oggi si parla molto del concetto «one health», salute unica di ambiente-animali -uomo».
Adesso stiamo vivendo una tregua, ma cosa succederà il prossimo inverno?
«Non parlerei di tregua bensì di percorso. Siamo in una fase nuova: la popolazione italiana prima era vergine rispetto a questo virus, senza uno straccio di anticorpi, ora invece il nostro organismo sta imparando, è come se avesse fatto le elementari e adesso è passato alle medie. Lo spazio di circolazione del Covid si riduce sempre più, sia come incidenza che come gravità».
E l’immunità dei nostri anticorpi, quanto durerà stavolta?
«Sfatiamo il concetto semplicistico di immunità che scade come fosse uno yogurt. Pochi giorni fa uno studio israeliano ha dimostrato la presenza di anticorpi oltre il 20 mese dalla vaccinazione. E comunque il nostro sistema immunitario ha acquisito un’immunocompetenza specifica contro il Covid. Che è un virus che resta, non scompare, ma non ha più libero accesso su tutti».
Ci si contagia anche con la terza dose però.
«Certo, io per esempio mi sono ammalato con la variante Omicron dopo il booster: pochi giorni di tosse e adesso le mie difese sono ancora più robuste. Forse il futuro di tutti sarà quello. Con un’immunità di popolazione ampia, il coronavirus potrà diventare un agente patogeno di nicchia, limitato ai mesi invernali».
E dopo la terza dose, una quarta?
«O magari un vaccino mirato su Omicron?La terza dose fa parte della natura delle vaccinazioni, la classica triade. È la logica vaccinale comune. Dopo di che non ci faremo immunizzare per ogni variante... Tre dosi oggi ci proteggono al 70 per cento contro il rischio di infezione e al 90 per cento dalla malattia grave. È anche verosimile pensare, per qualche anno almeno, a strategie di rinforzo annuale. Quelli a Rna sono facilmente riprogrammabili, mai in medicina si sono visti vaccini più sicuri».
L’eredità della pandemia ha smascherato molte realtà che non funzionavano, come la medicina del territorio...
«Che sicuramente va potenziata, così come i servizi di sanità pubblica, di prevenzione e sorveglianza, e la qualità della comunicazione anche internazionale. Serve soprattutto un’attività di intelligence, quello che gli scouts dicono «estote parati». Ma tutte le epidemie in passato hanno sempre portato a cambiamenti positivi. Il colera ha migliorato il mercato dei molluschi e la rete fogniaria napoletana. Il botulino ha rimodulato le regole di conservazione dei prodotti. Succederà così anche per il post-pandemia. Certo, il tema qui è quello della rifondazione, non basta assumere 20 mila persone per migliorare la sanità, è un problema culturale, essere più vicini alle persone, più radicati territorialmente. Ci vuole tempo. E non questione solo di tecnologia. I robot chirurgici sono fantastici, per carità, ma bisogna pensare anche e soprattutto al micro al villaggio, alla casa dove ci sono i malati che magari non riescono a parlare al proprio medico, e i sani, anch’essi soggetti importantissimi da coinvolgere. Il Pnrr adesso ci dà grandi risorse e possibilità, dobbiamo usarle al meglio».
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