Lifestyle
October 15 2012
Perché i bambini fissano le persone? Ti spiazza così Paolo Cognetti: sul più bello della storia appare una domanda improvvisa, una lacerazione dell'ovvio. Oppure ti aspetta al varco della memoria involontaria rievocando una sensazione che, sì, era proprio come "arrivare a una festa quando è appena finita". Anche se opponi resistenza ti sbatte in faccia un pensiero diretto come un pugno: avete mai pensato che l'amore degli adulti, come dice uno dei protagonisti, possa essere nient'altro che "esercizio di indulgenza e di tolleranza, abituarsi ai difetti di un'altra persona e infliggerle i propri, caricarsi sulla schiena il fardello della sua infelicità"?
In Sofia si veste sempre di nero , romanzo concept costruito come un puzzle di racconti, il lettore ha una parte molto attiva. Oltre a schivare le domande scomode, è continuamente stimolato alla composizione di una struttura. "Nelle mie intenzioni", spiega l'autore descrivendo il backstage dell'opera sul suo blog Capitano mio Capitano , "ogni pezzo del mosaico doveva poter vivere da solo, oltre che legarsi agli altri e comporre un disegno più ampio". Un disegno ambizioso, che ha fra i modelli dichiarati Jennifer Egan con il suo capolavoro Il tempo è un bastardo e, naturalmente, il linguaggio cinematografico. Arte che Cognetti maneggia con destrezza avendo iniziato come autore di documentari.
Sofia è la tormentata protagonista di un film lungo trent'anni, narrato a più voci secondo una cronologia non sequenziale. Seconda, terza e prima persona sono funzionali alle diverse inquadrature del personaggio: flashback sull'infanzia e l'adolescenza nel non luogo della cintura verde milanese; primi piani di un'anima punk che fatica a venire a patti con il suo stare al mondo, segnata dal tedium vitae e dall'incuria alimentare, di un corpo nervoso che scioglie la tensione solo nell'acqua bollente di una vasca da bagno ma poi davanti a una telecamera si accende come "percorso da una scarica elettrica"; autolesionistica action che coincide con una simbolica discesa agli inferi; campo lungo su una banchina di New York dove inizia forse la dolorosa risalita alla ricerca del sé perduto; colpo di scena finale manzonianamente postmoderno.
Sullo sfondo si agitano tante parallel stories (l'ordinario fallimento dell'istituzione matrimoniale, le dune della depressione, l'adulterio e l'amicizia, i flirt con la rivoluzione armata, l'Alfa Romeo dal boom ai grandi scioperi, l'arte di strada nei sobborghi newyorkesi) a fotografare il disagio di un'epoca che preparerà la nostra. Impietoso è soprattutto il grandangolo sulla crepa nei legami familiari, che il tempo allarga inesorabilmente malgrado la resistenza dei suoi attori. Famiglie, "sommergibili sotto il tiro di disgrazie casuali".
La qualità dell'indagine psicologica fa di Sofia un personaggio vivo a cui ci si affeziona. Fra paure archetipiche e Lexotan, fra solitudine sberle psicanalisi e rare "zone di autonomia temporanea", nel progressivo disfarsi del triangolo madre-padre-figlia rimane un corpo ossuto alla mercè dell'ossessiva ricerca dell'altro e di una via di fuga. Fuga dagli altri, fuga da se stessi. Sofia scompare senza saluti e senza rimpianti ma sempre lasciandosi dietro una scia di rimpianti nelle persone che l'hanno guardata passare senza sapere come prenderla e comprenderla, proteggerla, trattenerla.
Ancora più interessante e sottile è l'analisi dell'infezione nella psiche maschile provocata da tipe inafferrabili come Sofia (insospettabilmente numerose). A partire dal padre, per finire agli amici e amanti, prima di soccombere si duella per un po' indifesi, tra rabbia e rassegnazione. Solo più tardi, forse troppo tardi, si scoprirà il lascito prezioso di "una di quelle persone che ti aprono una porta e poi tolgono il disturbo".
Sofia si veste sempre di nero
di Paolo Cognetti
Minimum Fax
pp. 203, 14 euro