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October 31 2015
"Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell'anno". Parole e musica di Pier Paolo Pasolini: poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, giornalista. E calciatore. Mica per ridere, tutt'altro. L'intellettuale bolognese, scomparso il 2 novembre del 1975, era un giocatore vero, dal piglio guerriero e dai piedi accomodanti. Per lui, le partite di pallone erano una cosa seria. Da giocatore e da tifoso. Lo dice la cronaca di quegli anni. Lo sostiene il giornalista della Gazzetta dello Sport, Valerio Piccioni, nel suo libro "Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta", che racconta a panorama.it le ragioni di una passione fiera e assoluta.
Il suo sogno? Fare il calciatore
"Lo disse nel corso di un'intervista con Enzo Biagi. 'Se non avessi fatto lo scrittore-regista, avrei voluto fare il calciatore'. Non so se ne avesse i mezzi e soprattutto non so se un personaggio come lui si sarebbe potuto inserire in un ambiente così conservatore e bacchettone. In ogni caso, Pasolini era un giocatore molto generoso. Giocava mediano, oppure ala. Correva tantissimo e si metteva a disposizione della squadra. Non aveva un grande fiuto per il gol, faceva il suo. Ma sapeva come servire i compagni, questo sì. Il Mattino di Napoli un giorno titolò: 'Pasolini regista in campo'. Perché aveva intuizioni brillanti, da numero dieci. Difficile dire però se avesse avuto i mezzi per diventare davvero un professionista"
Per lui non erano mai semplici partitelle tra amici
"Pasolini era una persona dalla curiosità imbattibile. Quando viveva alla periferia di Roma, si lasciava incantare da un pallone che finiva in strada e magari iniziava a giocare con persone che non conosceva nemmeno. Tuttavia, gli piaceva fare le cose sul serio. Per lui, il calcio, non era un passatempo fine a se stesso: era molto attento al risultato. La prese molto male quando la troupe di "Novecento" di Bernardo Bertolucci riuscì ad avere la meglio sulla sua, quella del film "Salò e le centoventi giornate di Sodoma". Una partita che avrebbe dovuto pacificare il suo rapporto con il regista emiliano, e invece lui, Pasolini, uscì dal campo scuro in volto, accusando l'avversario di aver schierato in formazione un paio di giocatori del Parma. Giocava per vincere, certo, ma da tifoso non andò mai oltre lo sfottò di fine partita. Tifava Bologna, squadra per la quale nutriva un grandissimo affetto".
Il calcio, il suo porto sicuro contro le critiche
"Era un uomo contestatissimo, circondato da persone che lo detestavano. E questo sentimento non poteva che pesare nel suo quotidiano, nel suo modo di essere. Il momento della partita era inteso da lui come l'occasione per isolarsi da tutto e da tutti e dedicarsi a una passione vera, che nessuno poteva mettere in discussione. Perché era nelle sue corde, ne conosceva le regole e le pulsioni. Era un divertimento, certo, lo faceva star bene, anche se non rideva mai in campo. Per Pasolini, il calcio meritava rispetto. Sempre".
Una maglia con la Nazionale dello spettacolo
"A quei tempi, siamo alla metà degli anni Sessanta, non c'era ancora la moltiplicazione di partite di tutti i generi alla quale assistiamo oggi. E le gare avevano un certo valore, anche se venivano spesso organizzate sul momento o quasi. In estate, soprattutto, nelle pause che si concedeva prima o durante il lavoro. A Grado, gli capitò più di una volta di scritturare i giocatori in spiaggia per la sera stessa. C'erano Gianni Morandi, Little Tony e tanti altri. Erano gare di un certo livello, anche per la risposta del pubblico, che non faceva mai mancare la propria presenza".
Sempre tifoso, mai ultrà
"Non era come tanti intellettuali di ieri e di oggi che parteggiano senza riserve per la squadra del cuore. Pasolini rivendicava il fatto di essere competente vero. Non seguiva lo sport per vezzo. Anche perché il suo interesse non si fermava al pallone. Corse sui 1500 metri, pedalate sulle Dolomiti, infine l'amore sviscerato per le Olimpiadi. Pasolini praticava sport diversi e seguiva con attenzione i grandi eventi internazionali. Per il settimanale 'Vie nuove' raccontò le Olimpiadi del 1960 a Roma e i suoi articoli dimostrano il suo entusiasmo per i grandi campioni dell'atletica leggera. Osservatore attento e, certo, tifoso, mai ultrà. In una delle sue ultime interviste, gli chiesero un commento sulla Nazionale italiana di calcio, che in quel periodo stava attraversando una fase difficile. Lui rispose che aveva le sue idee, ma che voleva tenerle per sé, perché di commissari tecnici in Italia ce n'erano fin troppi".
"Mazzola è un elzevirista: è più poeta di Rivera"
"Lo scrisse in un articolo dedicato alla lingua del calcio. Per spiegarsi, prese come esempio i giocatori più in voga in quel momento. Citò Corso, Riva, Bulgarelli. E pure Mazzola e Rivera. Per quest'ultimo, parlò di 'prosa poetica'. Sì, lui preferiva Mazzola. In questo caso, come in altri, i suoi giudizi sul calcio erano sempre piuttosto netti. Prendeva posizione e lo faceva in modo chiaro e talvolta assoluto. Credo che avvertisse che il calcio si stava sempre più allontanando dal concetto di stadio e di gente che aveva animato il gioco del pallone dalle sue origini. La televisione cominciava a chiedere e pretendere spazi, a intervenire in uno sport che stava diventando a tutti gli effetti un prodotto commerciale, perdendo almeno in parte quell'innocenza perduta che ritrovò nel corso di una partita della Serie A etiope. Lo entusiasmava che ci fosse un luogo dove uomini in carne e ossa fischiassero o applaudissero altri uomini in carne e ossa che facevano del loro meglio in campo".