Passengers, la solitudine degli amanti siderali – La recensione
La gigantesca sagoma dell’Avalon rotola nell’infinito, astronave spaziale da crociera con cinquemila umani ibernati a bordo alla volta di un pianeta bello come un Eden da colonizzare e abitare felicemente. Perché la Terra, in questo futuro imprecisato ma certamente remoto, è diventata troppo piccola e inospitale. Tempo del viaggio: 120 anni.
Assurdo? No, prevedibile. Oggi non può essere così, domani chissà. È più di una ipotesi. Sulla quale, con ogni evidenza, nasce e prolifera Passengers (in sala dal 30 dicembre), firmato da Morten Tyldum, cinquantenne cineasta norvegese di fresca fama internazionale per le otto nomination all’Oscar (inclusa quella per la regia) ottenute nel 2014 con Imitation Game. La sceneggiatura si deve invece a Jon Spahits ed ha una storia curiosa perché è datata 2007 ed è stata a lungo un oggetto del desiderio di Hollywood prima di vedere la luce, anzi le stelle.
Quella fatale “anomalia”
Il trip siderale, però, non scivola via senza intoppi. E quando una nuvola di meteoriti investe il vascello incomincia a provocare una serie di anomalie, la prima delle quali colpisce il sarcofago trasparente di Jim Preston (Chris Patt), bel giovanotto atletico di mestiere meccanico, inducendolo a svegliarsi anzitempo. Non quattro mesi prima dell’arrivo come da programma ma con un anticipo di novant’anni, dunque “soltanto” trent’anni dopo la partenza. Il poveretto si ritrova così in piena solitudine cosmica e, poiché il pur sofisticatissimo sistema dell’Avalon non prevede un processo di re-ibernazione, la sua prospettiva d’isolamento si presenta immutabile, irreversibile, crudele, surreale nella certezza di non sopravvivere al viaggio nel quale s’è imbarcato.
Fulminato da Aurora Lane
Jim passa più di un anno in questa condizione folle, saltuariamente in compagnia del barman-robot Arthur (Michael Sheen), vagando per l’astronave, lussuosa come un transatlantico, prima di accorgersi di Aurora Lane (Jennifer Lawrence) la quale, ignara perché dormiente come tutti gli altri 4999 passeggeri, lo fulmina con la sua bellezza mitica e tralucente. Le gira attorno parecchio, il ragazzo, osservandola e studiando il manuale della capsula che la contiene. Poi si decide e fa la bastardata: la risveglia. In un atto di delirante egoismo sentimentale. Facendole credere, naturalmente, che pure lei è vittima di una “anomalia”.
Eccitazioni e felicità inattese
Fatto sta che, superata la prima inevitabile crisi d’angoscia e preso atto della situazione, anche Aurora si adegua alla sorte: che prima o poi, tra i mille comfort ambientali e rispettando il detto che in un modo o nell’altro ci si abitua a tutto, la spinge tra le braccia di Jim. Disegnando una storia d’amore eccentrica e, ça va sans dire, inedita. Con eccitazioni e felicità inattese. Anche se quella terribile “verità”, che certi dispositivi del plot lasciano immaginare, potrebbe prima o poi venire a galla: scatenando una crisi di convivenza tra i due che potrebbe andare di pari passo con quella dell’astronave, fiaccata da una dilagante successione di guasti surriscaldanti capace di farla esplodere da un momento all’altro.
Le sorprese dell’ultrascienza
Finale da scoprire al cinema, ovviamente. Per un film di fantascienza simpatico e, a suo modo, stravagante per quella sua singolarità di mettere in campo elementi tanto diversi fra loro, sia nelle peculiarità di genere sia nel tentativo di oltrepassarli, specie in talune dinamiche narrative. Intendiamoci: SF allo stato puro, o quasi, se pure applicata ai termini classici del cinema di matrice sentimentale. C’è di che divertirsi con ambienti e tecnologie futuribili in cifra di ultrascienza, con un esercito di piccoli spiritosi robot controllori più spazzapavimenti che altro, col barman androide saggio ma troppo impiccione, con una incredibile piscina protesa in un oblò-semisferico vista spazio, con il super-scanner capace di catalogare ogni patologia del corpo umano e perfino di resuscitare un morto, col sempre suggestivo invito a ragionare su una dimensione temporale diversa da quella sulla quale siamo abituati a riflettere. E via così.
Quando l’isolamento è di coppia
La vicenda ha accenti spesso drammatici, con le solite screziature comiche derivate dai bisticci con la tecnologia o dai suoi paradossi. E il tema della solitudine, inaugurato clamorosamente dal Keir Dullea/Doctor Bowman di 2001: Odissea nello spazio e intercettato da Sam Rockwell/Sam Bell in Moon, Sandra Bullock/Ryan Stone in Gravity o Matt Damon/Marck Watney in Sopravvissuto-The Martian, continua a pesare parecchio, pure con sfumature diverse, sugli schemi attuali di genere. Ma questa solitudine di coppia, destinata a spedire ai posteri la sua scia d’amore come fosse un messaggio in una bottiglia, beh, è cosa diversa, abbastanza originale e molto romantica.
Antidoti al ristagno narrativo
Insomma una love story derivata in favola siderale stile new age, che molto deve questa sua prerogativa ai volti, alle espressioni, alle movenze e agi stupori dei due attori protagonisti, specie Jennifer Lawrence cui la sceneggiatura assegna quel pazzesco nome di Aurora Lane ch’è tutto un programma, anche estetico, di opalescenza digitale. Certo, la storia e il montaggio che l’accompagna e la scandisce devono lavorare parecchio sui particolari e sui dialoghi per evitare una ripetitività e una circolarità che, alla lunga, portano il racconto a ristagnare o, peggio, a rischiar di fargli tirare le cuoia compromettendone architettura, stabilità e proporzioni. Ma tutto sommato il bravo regista se la cava: ricorrendo, quando l’azione non basta, alla poesia e agli incantesimi dell’Infinito e a ciò che questi ispirano nei cuori dei due amanti astrali.
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