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March 22 2019
Culturalmente, veltroniano. Ideologicamente, più a sinistra di tutti gli ultimi leader del Pd. Nella gestione del potere, trasversale e inclusivo come un vecchio democristiano della Ciociaria. Nella scelta dei collaboratori più stretti, grande collezionista di magistrati perché non si sa mai. Nicola Zingaretti, il neoeletto segretario del Pd, visto dalle cucine segrete del suo sistema di potere non è esattamente il nuovo che avanza, ma è la risposta più rassicurante possibile alla breve stagione della Rottamazione di Matteo Renzi.
L’ennesimo leader del centrosinistra, dopo Francesco Rutelli e Walter Veltroni, che parte da un’esperienza amministrativa romana più che dignitosa, ma che dovrà dimostrare di saper uscire dai confini del Lazio, di saper parlare a un Sud che ha voltato le spalle al Pd e a un Nord allergico al raddoppio delle consonanti come alla sfilata di attori e registi nei gazebo dell’eterna primavera romana. Perché sì, con Zingaretti sono tornati anche Sabrina Ferilli e Nanni Moretti, in attesa di Antonello Venditti, uno che di segretari ne ha benedetti (e seppelliti) una dozzina.
Ci sono almeno due snodi decisivi per capire come Nicola, fratello meno noto di Luca Zingaretti del Commissario Montalbano, sia arrivato alla segreteria del Nazareno con il compito di fermare la lunga notte del Pd e di sfidare Matteo Salvini e Luigi Di Maio. È utile ricordarli entrambi, perché aiutano a comprendere come il presidente del Lazio ha messo a punto la propria squadra e come si muoverà per tentare il grande salto nazionale. Il primo punto di svolta non lo ricorda nessuno, ma non è meno importante di aver sfangato avvisi di garanzia nel micidiale frullatore che è stato Mafia capitale. A metà giugno del 2014, con Renzi che da quattro mesi si è insediato a Palazzo Chigi scalzando il mite Enrico Letta e, ovviamente, si tiene ben stretta la segreteria del partito, a Zingaretti viene proposta la presidenza. È una carica poco più che decorativa, ma tanto basterebbe per marchiare a fuoco per sempre un emergente come il presidente del Lazio. La trattativa va avanti per settimane e a fare il nome di Zingaretti a Lorenzo Guerini e Renzi è Gianni Cuperlo. Lo statista di Rignano sull’Arno non vede problemi, ma poi succede che la corrente dei sedicenti «Giovani turchi» s’impunti e la presidenza del partito vada al suo stesso leader, Matteo Orfini, quello fotografato mentre gioca alla playstation e a calciobalilla con Renzi. Insomma, Zingaretti poteva fare la fine di Orfini e invece oggi se la gioca da leader nazionale. Il secondo punto di svolta è nel marzo del 2015, quando esplode lo scandalo di Mafia capitale, che dal punto di vista politico, tra un cooperatore rosso Michele Buzzi e un ex «nero» come Massimo Carminati, fa emergere come in nome degli affari la peggiore destra romana convivesse da anni con la più ipocrita delle sinistre «accoglienti» e solidali.
A Palazzo Chigi c’è anche in questo caso un Renzi all’apice del suo potere, che non ha uomini coinvolti nell’inchiesta, che cavalca il lavoro dei pm senza capire che saranno solo i grillini a raccoglierne il dividendo politico, e che anzi, non vede l’ora che Ignazio Marino lasci il Campidoglio.
Quanto a Zingaretti, presidente della Regione e alfiere di una sinistra «plurale e inclusiva» che a Renzi fa venire l’orticaria, l’allora premier «aspetta gli eventi». Che non arrivano. O meglio, sfiorano Zingaretti che perde il suo capo di gabinetto, Maurizio Venafro, che si dimette perché indagato per turbativa d’asta nella gara della gestione delle prenotazioni sanitarie. Un anno dopo, Venafro viene assolto, ma Zingaretti impara la lezione e si circonda di magistrati.
Guardare i curriculum dei collaboratori è interessante perché il Pd, specialmente quello romano, storicamente pesca sempre dagli stessi quattro cantoni, che stanno alla «modernizzazione del Paese» a loro tanto cara come una Panda diesel a una vettura ibrida giapponese. Venafro è stato per anni un dirigente in aspettativa dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti rinomata nel mondo. All’Ama, prima di essere scoperto da Zingaretti, era responsabile della comunicazione e dei rapporti istituzionali. In precedenza, era stato capo segreteria di Rutelli e poi capo della comunicazione di Pietro Marrazzo, il presidente della Regione la cui carriera politica fu stroncata dallo scandalo con un transessuale. Mafia capitale insegna però allo svelto Zingaretti che un lobbista anche esperto non basta per evitare certe trappole su appalti, gare e delibere. E che i rapporti troppo stretti con «sviluppatori immobiliari» come il «compagno» Luca Parnasi, l’uomo della nuova sede della Provincia costata 260 milioni quando le province stavano giù sparendo, poi finito nei guai con lo stadio della Roma appena ha provato ad avvicinarsi ai Cinque stelle, alla lunga sono solo legami pericolosi. Perché si rischia il coinvolgimento in inchieste e intercettazioni e perché ci si aliena i rapporti con gli altri costruttori, quelli veri, a cominciare da quel Francesco Gaetano Caltagirone che possiede anche Il Messaggero e un pezzo di Acea. E allora ecco che al posto di Venafro, Zingaretti si affida ad Andrea Baldanza, toga della Corte dei Conti, ora rientrato in magistratura. In ossequio al «teorema Cantone» (Raffaele, presidente Anac), ovvero la convinzione che nominando un giudice in un posto dove si smazzano consulenze e appalti, il politico poi dorme sereno, Baldanza e Zingaretti si contornano di alti magistrati, tanto in Regione quanto nei consorzi agricoli e di bonifica, greppie clientelari come poche.
Baldanza lascia il comitato regionale per i lavori pubblici del Lazio? Al suo posto ecco Carlo Modica De Moach, baby pensionato a 53 anni del Consiglio di Stato della Sicilia. E dalla Sicilia arriva anche Marco Lupo, altro fedelissimo di cui sentiremo parlare, che viene messo alla direzione dell’Arpa Lazio. Non è un magistrato, ma è un tecnico di riconosciuto valore, pescato addirittura tra gli ex direttori generali del ministero dell’Ambiente, quando il ministro era la forzista Stefania Prestigiacomo, che a sua volta lo aveva preso dalla Sicilia, dove aveva lavorato tanto con Raffaele Lombardo quanto con Rosario Crocetta. Anche la scelta di Lupo fa capire quanto Zingaretti sia un amministratore pragmatico e che non vuole più correre alcun rischio per la reputazione. Rischi che ha corso quando, sempre insieme al «giro delle toghe», aveva scelto il giudice Raffaele Maria De Lipsis come commissario dei consorzi di bonifica di Cassino, Anagni e Sora. De Lipsis era un pezzo grosso del Consiglio di Stato e del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, ma il 9 febbraio è stato arrestato su ordine del gip di Roma per corruzione in atti giudiziaria, in un troncone dell’inchiesta sull’avvocato Piero Amara e sui depistaggi dell’inchiesta che riguarda Eni. E sempre in ambito agricolo, impossibile non rilevare, anche in chiave di scalata nazionale, il solido rapporto del nuovo segretario del Pd con la Coldiretti. Qui il legame preferenziale con la ex «Balena bianca» degli agricoltori è con il segretario generale Vincenzo Gesmundo, dirigente da oltre un milione di euro l’anno, che a un convegno Coldiretti di tre anni fa, a Grosseto, invitò pubblicamente a votare «sì» al referendum costituzionale sulla riforma Boschi-Renzi.
Tra gli uomini-macchina di Zingaretti ricopre un ruolo strategico Albino Ruberti, 50 anni, da un anno capo di gabinetto in Regione Lazio, senza laurea, ma comunque figlio dell’ex rettore della Sapienza ed ex ministro Antonio Ruberti. A Roma non c’è appuntamento culturale o di spettacolo, da un quindicennio, che dietro non abbia avuto la regia discreta di Ruberti junior, che è partito con le «Notti bianche» di Rutelli e ha lavorato con tutti i sindaci di Roma, guidando anche Zètema, la controllata dal Comune per la gestione dei servizi culturali. In città alcuni maligniano che passare da un magistrato a un formidabile organizzatore di panem et circenses sia un segnale del nuovo Zingaretti che ci aspetta: meno appalti e più voti.
Giusto un anno fa, Zingaretti ha cominciato ad allargare la base elettorale del suo consenso, premiando uomini che portano voti. Maurizio Veloccia, ex presidente di municipio, è diventato capo della segreteria politica. Poi ha diviso in due la poltrona di vicecapo della stessa segreteria (creandone due da 130 mila euro lordi ciascuna) e una l’ha data ad Andrea Cocco, ex uomo di Goffredo Bettini, mentre l’altra è finita a Mario Ciarla, orlandiano di ferro. Tocco di classe, poi, la conferma anche quest’anno della consulenza a Umberto Gentiloni Silveri, cugino dell’ex premier Paolo, per la valorizzazione della memoria storica del Lazio.
Più strategica la consulenza che Zingaretti, a gennaio, ha affidato al medico Walter Ricciardi, ex presidente del Consiglio superiore della Sanità, nominato consigliere per la ricerca e l’innovazione. Ricciardi è ben introdotto in Vaticano e Zingaretti vuole copiare il modello lombardo di sanità proprio costruendolo intorno al Policlinico Gemelli. Ma che succederà, adesso che Zingaretti ha un ruolo politico nazionale così impegnativo? È qui che entra in scena Massimiliano Smeriglio, 52 anni, romano della Garbatella, professore universitario e testa pensante dello «zingarettismo», ovvero questo miscuglio politicamente correttissimo di volemose bene, occupazione scientifica degli spazi alla vecchia maniera comunista o democristiana (secondo utilità), inclusione di tutto l’includibile e anche del suo contrario, citazionismo emotivo-veltroniano. Smeriglio viene dai centri sociali e li difende, perché ripete sempre che a Roma hanno una produzione culturale difficilmente sostituibile e non hanno a che fare con la violenza. Vuole il salario minimo perché, come ha detto in campagna per le primarie, «sotto i 600 euro è schiavitù».
È stato l’ideologo e il coordinatore del movimento per Zingaretti segretario, «Piazza Grande», sembra perfetto anche per aprire il dialogo con M5s. Allergico agli affari e ai palazzinari, sarà probabilmente Smeriglio a presidiare l’ambito nazionale per Zingaretti, visto che lui non vuole e non può lasciare la guida della Regione. Si troverà a fare squadra con un paio di personaggi che testimoniano la somma fluidità del Pd: Paola De Micheli, ex lettiana, ex bersaniana ed ex renziana, e Antonio Misiani, commercialista bergamasco, ex bersaniano e in passato eroico tesoriere del partito. Sono due politici che adesso avranno la loro grande occasione con Zingaretti, come l’hanno avuta Maria Elena Boschi e Graziano Delrio con Renzi. La De Micheli è una quarantenne emiliana, laureata in scienze politiche alla Cattolica e che ha sempre lavorato nell’agroindustria «rossa», ovvero al Consorzio cooperativo Conserve Italia di Piacenza. Ha fatto tutta la trafila di partito e, insomma, è proprio l’emblema del paradigma Zingaretti, compreso lo slalom tra le correnti. Nella sua Piacenza, il 3 marzo scorso, l’amico Nicola ha preso il 70 per cento dei voti. Invece a Bergamo, Zingaretti si è fermato al 55 per cento, ma qui giocava in casa di Maurizio Martina e quindi il risultato vale oro. Misiani è un parlamentare di ampia esperienza, sarà l’uomo di raccordo tra il «romano» e il Nord. Ai tempi di Bersani ha dovuto gestire, come tesoriere, la fusione con quella Margherita che schierava Luigi Lusi e le sue acrobazie contabili. Ma questa volta l’incarico andrà al senatore Luigi Zanda Loy, 76 anni, ex pupillo di Francesco Cossiga. Perché l’inclusivo Zingaretti sa che, anche in tempi di fondazioni personali, le mani sulla cassa del Nazareno sono comunque importanti ed è meglio affidarsi all’usato sicuro.