La camera delle esecuzioni del penitenziario di Huntsville in Texas (Getty Imagines / John Raedle)
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Stati Uniti: 300 innocenti condannati a morte

E'un'autorevole ricerca scientifica, ma, visto i tristi risultati, potrebbe essere considerata un Manifesto contro la Pena Capitale. Condotto da Samuel Gross, docente della prestigiosa University of Michigan School Law, lo studio ha analizzato le 7482 condanne a morte inflitte dai tribunali negli Stati Uniti dal 1973 al 2004.

E, alla fine, tra dati statistici e indagini, indicando un numero preciso, ha dato un volto alla pena capitale, ha scoperto una verità che molti sospettavano ma che nessuno aveva mai interamente svelato: al patibolo sono saliti decine e decine di innocenti, persone che non avevano commesso il crimine per cui sono stati uccise, uomini (nella stragrande maggioranza dei casi) che proclamavano la loro innocenza, ma che non venivano creduti a causa di un burocratico sistema giudiziario che rimaneva indifferente al possibile errore e fedele, invece, alla  decisione presa, anche se questa faceva perdere la vita allo sfortunato di turno.

Decine di vittime innocenti

I giornali americani parlano di un'inchiesta scioccante. Lo è. Per quelli che si sono sempre opposti alla pena di morte, ma anche per chi l'ha sempre sostenuta. Circa il 4% delle persone che sono entrate nel braccio della morte dei penitenziari americani era innocente: 340 persone. Di queste, l'1.7% è uscito vivo dalla prigione (144 persone), mentre molti altri sono finite sulla sedia elettrica o legati al lettino della stanza del boia per l'iniezione letale. In numeri assoluti sarebbero 183 casi. Non tutti i condannati però sarebbero stati uccisi perché, dice la ricerca pubblicata sulla rivista della National Academy of Sciences, alcune sentenze sono stata commutate in ergastolo, senza possibilità di ulteriore appello.

Il numero degli innocenti uccisi, quindi, diminuisce, ma rimane comunque alto: si tratta di decine e decine di persone.

Chi si è salvato, lo ha fatto per lo più grazie al test del Dna. Questa prova, utilizzata con frequenza solo da metà degli anni'90, ha fatto uscire dal carcere la maggior parte degli innocenti che erano stati condannati alla pena capitale. Ma non tutti. Il test, infatti, viene utilizzato soprattutto nel caso di stupro e omicidio, ma non in quelli di solo omicidio. Così, non tutti ne hanno potuto usufruire.

Sommersi e salvati

Se i giudici hanno dato retta a testimoni oculari confusi sull'identità dell'assassino, o, peggio, forzati dagli inquirenti a indicare la colpevolezza dell'accusato; se hanno creduto a prove scientifiche sbagliate o volutamente manipolate; se hanno basato il loro giudizio su false confessione fatte da terzi per ottenere sconti della pena, o estorte con la tortura, per l'imputato innocente non c'è stato scampo.

Non sono stati fortunati come Kirk Bloodsworth, che ha speso otto anni della sua vita in una prigione di Baltimora in attesa della sua esecuzione. Era stato condannato per lo stupro e l'uccisione di una bambina di nove anni nel 1993. Fu grazie alla prova del Dna che venne liberato. E'stato il primo caso in assoluto negli Usa. Damon Thibodeaux, invece, ha passato sette anni nel braccio della morte, in una cella di isolamento per 23 ore al giorno. Le pressioni dei poliziotti lo avevano convinto a confessare un delitto che non aveva mai commesso. Un'inchiesta parallela e il test del Dna lo hanno salvato.

John Edward Smith, entrò in carcere e attese per 19 anni il giorno in cui avrebbe incontrato il boia. Era stato accusato di aver ucciso un uomo a Los Angeles. Due decenni dopo, il testimone che lo aveva inchiodato, ritrattò tutto, dicendo che era stato spinto dalla polizia a dire il falso.

Carlos De Luna, invece, urlò la sua innocenza fino alla fine. Ma nessuno volle credergli. Era il 1989, in Texas. Venne mandato a morte per l'omicidio di un benzinaio durante una rapina sei anni prima. Era il condannato ideale: ispanico, giovane e pieno di precedenti penali. La polizia chiuse le indagini in poco tempo. Vent'anni dopo, dopo molte ricerche, un docente della Columbia University riuscì a stabilire che in realtà, l'assassino era un altro giovane che gli somigliava molto. Ma la giustizia si era già preso la sua vita, non quella del suo sosia.

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