Economia
December 02 2015
Al lavoro fino a 75 anni, per poi prendere una pensione ben più magra di quella dei loro genitori. Ecco la prospettiva che attende molti giovani italiani con meno di 35 anni di età, secondo gli scenari a tinte fosche dipinti ieri dal presidente dell'Inps, Tito Boeri. Come se non bastasse, sempre ieri, c'è stato pure l'allarme dell'Ocse, che ha messo in evidenza come il nostro sistema previdenziale sia squilibrato a vantaggio dei più anziani e rischi di non garantire una pensione adeguata alle generazioni giovani.
Pensioni più basse e al lavoro fino a 75 anni
A ben guardare, nonostante la vasta eco suscitata, sia l'Ocse che Boeri non hanno detto nulla di nuovo. Hanno soltanto descritto gli scenari che si aprono nel sistema previdenziale italiano, per effetto delle riforme approvate negli ultimi decenni. La prima, e più importante di tutti, è quella varata nel 1995 dal governo Dini che ha introdotto gradualmente un nuovo sistema di calcolo delle pensioni. Si tratta del metodo contributivo, che lega l'importo dei futuri assegni dell'Inps ai versamenti previdenziali effettuati nel corso della carriera. Maggiore è la quantità di contributi accantonata durante la vita lavorativa, più alta sarà la pensione.
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Si tratta dunque di un sistema di calcolo diverso rispetto a quello esistente fino al 1995 (e in parte ancora in vigore) che si chiama metodo retributivo e che lega invece l'importo degli assegni alla media degli stipendipercepiti dal lavoratore prima di andare in pensione. Mentre con il metodo retributivo si poteva conservare in vecchiaia più o meno lo stesso tenore di vita precedente al pensionamento, con il sistema contributivo la prospettiva cambia radicalmente: chi versa pochi contributi durante la carriera, nella terza età rischia di ricevere dall'Inps un assegno da fame.
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Fatta questa premessa, è ben chiaro quali sono le categorie di lavoratori che potrebbero trovarsi con redditi assai bassi quando avranno i capelli bianchi. Il rischio maggiore lo corrono quei giovani di oggi che lavorano spesso a “spizzichi e bocconi”, cioè hanno delle carriere discontinue, con lunghi periodi di disoccupazione o entrano molto tardi nel mondo del lavoro perché acquisiscono una qualifica scolastica e professionale in età troppo avanzata. Come se non bastasse, poi, c'è un altro particolare che va tenuto in considerazione. Con il meccanismo introdotto dalla riforma del 1995, infatti, l'importo delle future pensioni è legato a doppio filo anche all'andamento dell'economia italiana, che oggi purtroppo procede ancora al rallentatore, dopo anni di crisi nera.
Paese povero, pensioni povere
Secondo il sistema previsto dalla legge Dini, infatti, i contributi versati dal lavoratore vengono rivalutati ogni 12 mesi di una percentuale pari all'incremento medio del pil nominale italiano dei 5 anni precedenti. Se il pil cresce in media dell'1%, anche i contributi si rivalutano della stessa cifra. Alla fine della carriera, tutti gli accantonamenti previdenziali (più le rivalutazioni previste per legge) vanno a costituire una cifra che si chiama montante contributivo, sulla cui base viene calcolato l'importo della pensione. Esempio: chi accumula un montante di 100mila euro circa e si ritira a 70 anni, ottiene una pensione di circa 6.500 lordi all'anno, corrispondenti ad appena 500 euro al mese. Se invece il montante contributivo è più alto e raggiunge i 200mila euro, l'importo della pensione sarà doppio, cioè attorno a 13mila euro lordi all'anno, circa mille euro lordi al mese.
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Una volta compreso questo meccanismo, è ben chiaro come l'andamento claudicante dell'economia italiana rischi di avere gravi effetti anche sulle tasche dei futuri pensionati. Se il pil cresce poco, pure i contributi accantonati dai lavoratori si rivalutano di poco e il montante previdenziale di fine carriera, sulla cui base vengono calcolati gli assegni Inps, rischia di essere ben più magro del previsto. In un paese impoverito, insomma, si impoveriscono pure le pensioni.