Economia
April 22 2016
Una generazione costretta a lavorare fino a 75 anni per avere un assegno pensionistico dignitoso in vecchiaia. E' quella nata negli anni '80 del secolo scorso e che, secondo il presidente dell'Inps Tito Boeri, dovrà a rimanere al lavoro fino a un'età avanzatissima, per non rischiare di ritrovarsi con una pensione da fame durante la terza età. Con le sue parole, Boeri si è attirato le critiche della segretaria della Cgil, Susanna Camusso. La previsioni di una pensione a 75 anni, infatti, per Camusso sembra “un annuncio più che una criticità da affrontare” e rischia di diffondere sfiducia tra i giovani, i quali potrebbero reagire dicendo: “non pago più i contributi, visto che non mi garantiranno nemmeno una pensione dignitosa”.
Pensioni 2017, cosa potrebbe cambiare
In realtà, che si tratti di annunci o meno, Boeri non ha detto nulla che già non si sapesse. Il presidente dell'Inps ha infatti evidenziato le conseguenze di una riforma previdenziale, quella del governo Dini del 1995, che è in vigore da più di 20 anni. A distanza di oltre quattro lustri dall'approvazione di questa legge, dunque, l'unica cosa strana è che le parole di Boeri destino ancora tanto clamore, visto che non svelano alcuna verità nascosta. Con la riforma Dini del 1995, infatti, l'importo delle pensioni future dipenderà esclusivamente dalla quantità di contributi versati durante la carriera e non più dagli ultimi redditi percepiti prima di mettersi a riposo (com'è stato per tutti i lavoratori fino a 20 anni fa). Maggiori saranno i versamenti, più alta sarà la pensione.
Contributi in fumo
Se un lavoratore ha una carriera lineare, che inizia attorno a 20-25 anni di età e finisce a 70 anni senza interruzioni, anche con il sistema attuale si ritroverà in vecchiaia con un assegno più che dignitoso, pari al 70-75% dell'ultimo stipendio. Il guaio è che i giovani di oggi hanno purtroppo delle carriere discontinue: entrano nel mondo produttivo tardi, cioè riescono a trovare un impiego stabile molto in età avanzata, dopo aver attraversato lunghi periodi di disoccupazione. Lavorando a “spizzichi e bocconi” dunque, gli under 35 versano ben pochi contributi all'Inps e, proprio per questa ragione, rischiano di ritrovarsi con una pensione da fame in vecchiaia.
Busta Arancione: quali dati contiene
Per rendersene conto, basta prendere in esame il caso concreto di un dipendente che oggi guadagna circa 20mila euro lordi annui, equivalenti a 1.300 euro netti. Con un tale livello di stipendi, l'azienda gli versa ben 6.600 euro circa di contributi. Dunque, se lo stesso lavoratore resta disoccupato per lungo tempo, perde un bel po' di versamenti all'Inps e vede assottigliarsi progressivamente la pensione futura. Facendo una carriera di 35 anniinvece che di 40, per esempio, vanno in fumo ben 33mila euro di potenziali contributi che, rivalutati a fine carriera, avrebbero dato tra 170 e 250 euro euro al mese di pensione in più. Se invece la carriera dura solo 30 anni invece che 40, si perdono almeno 66mila euro di potenziali versamenti all'Inps che, sempre a fine a carriera, avrebbero dato almeno 350-450 euro di pensione in più. E così, a forza di spostare in avanti l'ingresso nel mondo produttivo, alla fine i nodi vengono al pettine e i giovanii rischia di ricevere in vecchiaia una assegno pensionistico assai magro.