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January 12 2017
Per Lookout news
Il 9 gennaio scorso Lookout News commentando il periodo di passaggio tra l’Amministrazione uscente di Barack Obama e quella del suo successore Donald Trump, ha parlato di “una transizione difficile”, resa complicata non soltanto dalle difficoltà oggettive che tradizionalmente accompagnano questa delicata fase istituzionale negli Stati Uniti, ma anche da polemiche miranti di fatto a delegittimare il nuovo presidente americano.
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In particolare, con la pubblicazione di un report elaborato dalle quattro principali agenzie di intelligence USA – la National Intelligence, la CIA, l’NSA e l’FBI – su mandato del presidente Obama, è stata messa in dubbio in modo ambiguo e allusivo la scelta degli elettori a favore di Trump in quanto la campagna elettorale sarebbe stata inquinata da pesanti interferenze a favore del candidato repubblicano operate da hacker pilotati dai servizi segreti russi.
Nel parlare di “transizione difficile” si è però peccato di ottimismo. Nella giornata di ieri, mercoledì 11 gennaio, infatti, sui giornali di tutto il mondo è comparsa la notizia di un nuovo report asseritamente proveniente dall’intelligence americana, contenente notizie molto compromettenti per il neo presidente, accusato di essere ricattato dal Cremlino per i suoi affari in Russia e per le sue perversioni sessuali. Accuse gravissime che in un primo momento sono state ricondotte a un’informativa ufficiale dei servizi segreti americani.
Un esame del nuovo, incriminante, report mostra chiaramente che non può essere minimamente riconducibile a un organismo ufficiale statunitense. L’intestazione “Company intelligence report” non è attribuibile alla CIA, che viene chiamata “Company” solo nei romanzi di spionaggio. La classifica di segretezza del documento non appartiene al gergo ufficiale: infatti i documenti dell’intelligence recano in testa il livello di segretezza – “confidential”, “secret”, “top secret”, etc. – e nessun altro riferimento.
In questo report la classifica di segretezza è invece “Confidential/Sensitive source”. Sarebbe stato sufficiente questo riferimento a far capire a chiunque con un minimo di esperienza di documenti dell’intelligence che ci si trovava di fronte a una documentazione quantomeno sospetta.
Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, il protocollo del documento (anno e numero progressivo delle informative), la presenza di errori di ortografia, la denominazione improbabile delle fonti (A, B, C, etc.) che normalmente nei documenti interni dei servizi vengono indicate o con il nome di copertura (“Sonia”, “Mirtillo” e via dicendo) o, nelle informative destinate ai clienti istituzionali, definite in base all’attendibilità o alla capacità di accesso alle informazioni sensibili (“fonte solitamente attendibile” o “fonte con accesso diretto”), da soli erano sufficienti a far capire sia ai tecnici del settore sia a giornalisti di una certa esperienza che ci si trovava di fronte a un documento estraneo all’intelligence ufficiale.
Le perplessità sull’attendibilità del “Company intelligence report” sarebbero poi dovute aumentare leggendone il contenuto, pieno di errori formali e di notizie strampalate e inattendibili. Infatti, nel testo si parla di “russian regime”, un termine che neanche un giornale scandalistico userebbe per definire il governo russo. Si afferma che fin dal 2013 Trump lavorava per screditare la sua concorrente Hillary Clinton con l’aiuto del Cremlino, quando è noto anche ai lettori meno attenti che nel 2013 la Clinton era ancora segretario di Stato e Donald Trump un ricco immobiliarista e che nessuno dei due – tra i due soprattutto Trump – poteva ancora immaginare che tre anni dopo avrebbe vinto le primarie e che avrebbe affrontato proprio quel rivale nella corsa alla Casa Bianca.
Per non parlare delle notizie sulle perversioni sessuali di Trump e sui suoi intrecci con i vertici del Cremlino, fornite da una rete di fonti di altissimo livello, una rete che se fosse esistita realmente avrebbe fatto sognare i vertici di qualsiasi servizio segreto, una rete che la CIA ha sempre sconsolatamente ammesso di non avere.
Senza andare oltre nel citare le incongruenze del report che per ventiquattr’ore ha conquistato l’attenzione dei media di tutto il mondo, questi esempi sono sufficienti a definirlo un falso. I dubbi che si trattasse di un “fake”, di un documento farlocco, avrebbero dovuto consigliare cautela sia ai giornalisti, ai quali “manine” misteriose lo avevano fatto pervenire, sia ai vertici dell’intelligence americana che dopo averlo esaminato lo hanno comunque giudicato degno di essere portato all’attenzione sia del presidente uscente che del suo successore.
Come era da aspettarsi, la pubblicazione del “Company intelligence report” ha provocato negli Stati Uniti e all’estero una bufera mediatica che ha rovesciato sulla testa del neo presidente americano un quantità di accuse che, se vere e provate anche in minima parte, ne delegittimerebbero in modo irreparabile la figura prima ancora del suo ingresso alla Casa Bianca.
Donald Trump ha ovviamente reagito in modo indignato sia alla pubblicazione del dossier sia per il fatto che l’intelligence lo abbia potuto trovare attendibile al punto di sottoporlo in forma riassuntiva alla sua attenzione durante il briefing del 6 gennaio, quando i capi delle quattro Agenzie lo hanno incontrato alla Trump Tower per discutere delle attività vere e presunte del Cremlino in America. L’11 gennaio, durante la sua prima conferenza stampa dopo le elezioni, il neo presidente, riferendosi alla pubblicazione del report ha detto: “credo sia una disgrazia che le agenzie di intelligence abbiano permesso la circolazione di notizie così false e truffaldine. È qualcosa che poteva accadere, e in effetti accadde, solo nel Germania nazista”.
Accuse pesanti che hanno costretto il capo della National Intelligence, James Clapper, a diffondere un imbarazzato e confuso comunicato nel quale, dopo aver espresso disappunto perché il dossier è stato fatto pervenire alla stampa ha ammesso che le accuse contro Trump provenivano da “un’agenzia di sicurezza privata” e sostenuto che “le agenzie di intelligence americane non avevano espresso alcun giudizio sull’attendibilità delle accuse” e che “tuttavia si era ritenuto di fornire comunque ai vertici della politica un quadro più completo possibile delle materie che possono danneggiare la sicurezza nazionale”. Un’affermazione incredibile che, dopo aver riconosciuto che nessuno nell’intelligence community americana ha vagliato l’attendibilità del dossier, getta una luce ambigua sulla professionalità dei vertici dei Servizi americani e sulle motivazioni di un’azione di indubbia gravità politica.
Il dossier, si è poi saputo, è stato elaborato da Christopher Steele, un funzionario in pensione del Servizio segreto inglese, attualmente titolare della Orbis Bussiness Intelligence, società che dopo aver offerto i propri servizi ai concorrenti repubblicani di Trump alle elezioni primarie si sarebbe poi proposta ai democratici.
Michael Morell, ex vicedirettore della CIA e supporter di Hillary Clinton, ha dichiarato al Washingotn Post: “mi sembra un fatto straordinario e senza precedenti che si sia portato all’attenzione di un presidente in carica e di un presidente eletto un documento privato sui cui contenuti non si ha ragione di credere”. Il giornale di Washington ha ammesso di aver ricevuto copia del documento insieme ad altri giornali americani e di aver svolto ricerche anche all’estero per valutare le notizie riportate ma “di non essere riuscito trovare conferma delle accuse” contro Donald Trump.
L’FBI ha ammesso di aver incontrato due volte Steele, nell’agosto del 2016, dopo che questi aveva offerto il documento al senatore repubblicano John McCain, fiero oppositore di Trump, ma di non aver potuto valutare l’attendibilità delle sue fonti perché Steele si era rifiutato di rivelarne l’identità. Comunque l’ex funzionario del Servizio inglese era ritenuto “affidabile” e per questo una sintesi del suo dossier è stata inserita nei briefing presidenziali mentre “qualcuno”, a dieci giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, ha deciso di far arrivare alla stampa la versione integrale di un rapporto che descrive il neo presidente come un pervertito, corrotto e ricattato da Vladimir Putin.
La portata dell’attacco condotto contro Donald Trump non solo dalla stampa liberal, che lo ha sempre avversato, ma anche da istituzioni come le Agenzie di intelligence americane che non hanno esitato a dare una credibilità sostanziale a un “fake” così grossolano come il Company intelligence report, induce a riflessioni preoccupate sul clima avvelenato che contraddistingue la transizione alla Casa Bianca. Un clima inquinato con ogni mezzo da un establishment che sembra non voler accettare di essere messo da parte dopo l’inaspettato successo del tycoon newyorchese che, contro ogni previsione, ha comunque legittimamente conquistato il diritto di essere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti vincendo libere e democratiche elezioni.