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December 21 2017
I Rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che abita prevalentemente in Myanmar, dove se ne contano circa ottocentomila. Sono stanziati nella regione da almeno mille e duecento anni e, nel corso dei secoli, sono stati oggetto di diverse persecuzioni, l'ultima delle quali sta assumendo i tetri contorni del genocidio.
È un vocabolo che avremmo preferito non sentire ripetere nei resoconti d'attualità e che speravamo relegato ai manuali di storia. Con genocidio, infatti, si intendono, secondo la definizione cristallizzata nelle delibere delle Nazioni Unite, gli atti "commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso".
È il crimine contro l'umanità peggiore, che va anche oltre le aberranti campagne di pulizia etnica che abbiamo visto essere commesse, ad esempio, nella ex Jugoslavia.
La pulizia etnica (che è il termina utilizzato dal Segretario di Stato americano Rex Tillerson), infatti, si pone a un livello di aberrazione meno grave, se così si può dire, perché punta all'eliminazione dal territorio, non alla cancellazione di un popolo.
L'obiettivo dei genocidi, infatti, é quello di eliminare completamente un gruppo dalla faccia della terra e di decretarne la scomparsa. Il genocidio a noi più noto è quello degli Ebrei ordinato da Hitler. E le vittime sono tali semplicemente perché appartengono a un determinato gruppo.
Stiamo assistendo a qualcosa di analogo in Myanmar, per giunta ad opera di un governo che ruota attorno alla figura del Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi?
Purtroppo, i segnali sembrerebbero proprio condurre verso una risposta positiva.
La Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio identifica anche quali sono gli atti in cui si concretizza il crimine di genocidio: uccisioni, attacchi violenti, la creazione di condizioni di vita così inumane da portare alla distruzione del gruppo, azioni volte a impedire nascite all'interno del gruppo; il trasferimento forzato di minori.
La scarsità di informazioni non aiuta, ma le testimonianze di omicidi di massa di cui sono vittime persone per il solo fatto di essere Rohingya si stanno moltiplicando e ormai sembrano non esserci più molti dubbi sul fatto che l'esercito stia sistematicamente uccidendo e deportando gli appartenenti a questo sfortunato gruppo etnico.
Sebbene le statistiche ufficiali parlino di quattrocento persone uccise in non meglio precisati scontri, la realtà sembra essere ben più cupa. Un rapporto pubblicato pochi giorni fa da Medici Senza Frontiere parla di 6.700 Rohingya assassinati (di cui 730 bambini) nel primo mese di persecuzioni, tra agosto e settembre, e di violenze che proseguirebbero su larga scala.
Non solo: ai superstiti non sarebbe concesso nemmeno di fuggire nei Paesi confinanti, visto che le vie di uscita dal Myanmar sarebbero state minate. Proprio questo è il segnale più preoccupante della gravità di quanto sta avvenendo, perché dimostra che il disegno ordito a Yangon sarebbe proprio quello di commettere un genocidio in piena regola.
Da mesi la comunità internazionale punta il dito contro il silenzio della leader democratica del Myanmar, che non solo non ha mai denunciato le violenze contro la minoranza musulmana, ma continua a non rispondere a tutti gli appelli che la invitano a mettere fine a questa tragedia. L'ultimo è di un paio di giorni fa, ed è arrivato da Ra'ad Al Hussein, il Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Al telefono con Aung San Suu Kyi, il funzionario le avrebbe detto "sono stati commessi crimini atroci nel tuo paese, per favore fai qualcosa per fermarli", e la leader avrebbe risposto "tutto questo è terribile, e di certo vogliamo capire cosa sta succedendo".
Poi, però, il governo birmano ha inviato una nota alle Nazioni Unite sostenendo che fossero stati commessi molti errori nel rilevamento e nell'interpretazione dei fatti. Chiudendo per l'ennesima volta la questione senza dare una risposta e senza prendersi responsabilità.
Non c'é dubbio che il vero responsabile di quanto stia succedendo sia il Comandante in Capo dell'Esercito, il Generale Aung Min Hlaing.
Tuttavia, se in un primo momento il silenzio di Aung San Suu Kyi poteva essere giustificato dal tentativo di evitare che l'esercito dichiarasse lo Stato di Emergenza per riprendere definitivamente il controllo del paese, alla luce delle atrocità commesse fino ad oggi la linea del non intervento non è più accettabile.