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September 14 2018
"Vostok", che in russo significa "Est", è un appuntamento denso di molti significati: oltre a quello letterale che evoca una contrapposizione e una presa di distanza dall’Occidente e dall’Alleanza Atlantica, racconta di un nuovo possibile corso politico. Il ritorno della Cina su posizioni militariste, ad esempio, al fianco dell’alleato naturale nella regione. Così come la volontà di Putin di blindare il Pacifico assorbendo finanche il Giappone, storico alleato Usa. Infine, proiettare l’alleanza sino-russa su nuovi scenari geopolitici quali Africa e Mediterraneo.
Numeri alla mano, si tratta della più grande operazione militare dalla Guerra Fredda. Le forze e i mezzi dispiegati, il totale degli effettivi, e ovviamente la tecnologia a disposizione, rappresentano un primato assoluto: quest’anno sono ben 300 mila i soldati inviati da Mosca nella Siberia Orientale, cui si sono uniti 3.200 effettivi dell’esercito popolare cinese, più una rappresentanza di soldati mongoli.
I mezzi corazzati e gli aerei dispiegati - 80 navi militari, 36 mila corazzati e 1.000 aerei - offrono agli osservatori internazionali un’immagine di forza allarmante. Specie per la Nato che, complice la presenza dei soldati cinesi al fianco di Mosca, legge le manovre con crescente preoccupazione.
Tutavia, la presenza di Pechino all'evento doveva darsi per scontata, dopo che Washington ha scatenato contro entrambi i Paesi una guerra commerciale.
Se Pechino si è vista infliggere un innalzamento dei dazi a tutela del mercato Usa e la promessa di un progressivo smantellamento delle multinazionali americane oggi presenti in Cina, Mosca subisce già pesanti sanzioni da Stati Uniti ed Europa, comminate per un preciso ordine delle amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca.
Questo ha spinto inevitabilmente Cina e Russia l’una tra le braccia dell’altra. E l’incontro al vertice tra il presidente russo Vladimir Putin e il collega cinese Xi Jinping, avvenuti a Vladivostok lo scorso 12 settembre durante il Forum economico, ha suggellato quell’intesa che era nell’aria da tempo.
Xi non ha fatto mistero di ritenere Putin il suo "miglior amico intimo". Di più: alla Far East Street, la mostra dedicata alla cultura e alla cucina regionale dell’oriente russo, i presidentissimi si sono lasciati fotografare insieme mentre preparavano frittelle russe, accompagnandole con vodka e caviale, con indosso grembiuli da cuoco. Una gag riuscitissima per la gioia dei media, che ha ricordato in un certo senso le cordialità tra Mao Zedong e Joseph Stalin, ma che aveva un obiettivo ben più ambizioso: riaffermare il potere delle superpotenze nella regione e, de relato, oscurare gli Stati Uniti alienandoli progressivamente dall’Asia e, soprattutto, dall’Oceano Pacifico.
Per questo motivo Vladimir Putin, durante il Forum Economico di Vladivostok, ha lanciato un amo geopolitico di proporzioni storiche al premier giapponese Shinzo Abe, presente per l’occasione: "Mi è venuta un’idea. Chiudiamo un trattato di pace entro la fine dell’anno, senza che siano poste condizioni” ha proposto a bruciapelo Putin al leader nipponico, durante la conferenza stampa congiunta.
"Non scherzavo" ha riferito in seguito alla stampa che gli chiedeva lumi sull’uscita inedita. E c’è da crederlo. Perché il momento è opportuno, secondo gli analisti del Cremlino.
La leadership mondiale degli Stati Uniti, infatti, per quanto ancora indiscutibile, attualmente è messa in crisi non tanto dalla politica estera esercitata dall’Amministrazione Trump, quanto piuttosto dalla pervicace e persino ottusa campagna d’odio lanciata dai democratici americani contro il proprio presidente, che reca più danni alla democrazia di quanti non ne denunci: questo perché indebolisce non solo l’immagine di Washington a livello mondiale, ma mina l’autorevolezza stessa delle decisioni importanti prese da quel governo in politica estera.
Eppure - e i democratici dovrebbero saperlo bene - una leadership forte e un presidente credibile sono alla base della ricetta americana di dominio del mondo, mentre l’odio per un presidente sgradito non giustifica questa campagna avvelenata da notizie duebbie diffuse artatamente e difficilmente verificabili che, per dirla all’italiana, hanno prodotto una vera e propria "macchina del fango" contro Donald Trump.
Passi l’opposizione politica, ma avere un comandante in capo che ogni giorno viene attaccato per quisquilie (si pensi alle pornostar, alle frasi inopportune, al rapporto con la moglie, finanche al caso Russiagate, che si sta sgonfiando per mancanza di prove) pone dei dubbi sia a Mosca che a Pechino circa la tenuta della presidenza.
Per quanto Trump si sforzi di farsi beffe della propaganda contro di lui, Vladimir Putin e Xi Jinping sono pienamente consapevoli del fatto che, a differenza di Trump, loro non hanno alcuna opposizione a impensierirli, né i rispettivi mandati governativi hanno i limiti temporali tipici delle democrazie (o meglio, quando li hanno, li aggirano facilmente), e non devono quasi giustificare le proprie azioni di fronte all’elettorato.
Per questo, con la scusa dell’estremismo islamista, Russia e Cina hanno stretto un’intesa profonda che oggi si rivolge all’Asia, ma che ben presto avrà un perno importante anche in Africa e nel Mediterraneo, dove l’accerchiamento economico (Cina) e militare (Russia) è volto a modificare la mappa geopolitica in loro favore, sostituendosi progressivamente a Usa ed Europa, che sinora avevano agito indisturbatamente in questa parte di mondo. Ma i tempi stanno cambiando. O, almeno, questa è la speranza dei leader d’Oriente. E lo dimostra l’intenzione di inserire nel dossier internazionale anche Tokyo e, in prospettiva, la Corea del Sud. Sfida, quest’ultima, ben più difficile dopo i buoni uffici tra Washington e Pyongyang che, per il momento, hanno disinnescato la minaccia nucleare della Corea del Nord.
A tutto ciò si affianca inevitabilmente la cooperazione commerciale, che nel 2017 ha visto un incremento spaventoso della collaborazione economica tra Mosca e Pechino, con gli investimenti diretti cinesi in Russia aumentati del 72%.
Mosca, attraverso l’azienda di stato Gazprom, ha ricambiato costruendo un gasdotto di 3.000 km (1.864 mi) che presto collegherà la Siberia orientale al confine cinese.
Senza contare che la Russia è da tempo il più grande fornitore di petrolio della Cina e una fonte energetica strategica per il futuro del miliardo e mezzo di popolazione cinese.
La ridefinizione di questa alleanza, dunque, al di là dei giochi di guerra racconta di una ritrovata complicità tra i due governi, dopo decenni di alti e bassi.
Vladimir Putin e Xi Jinping sono leader longevi ma ben ancorati al presente, e non temono le intemerate americane né il loro coriaceo presidente, forti dei successi militari russi in Siria il primo e della penetrazione dell’Africa il secondo.
Se oggi il prodotto interno lordo della Cina è cinque volte più grande di quello russo, l’esperienza militare e di contrasto al terrorismo di Mosca compensa lo squilibrio tra i due attori (la Cina teme molto l’estremismo islamico degli Uiguri che abitano la provincia dello Xinyuan) in maniera sufficiente da fare temere che una saldatura durevole tra i due attori possa compromettere la leadership degli Stati Uniti e della Nato nel panorama mondiale.