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August 04 2017
"I nostri uomini hanno disperatamente bisogno di aiuto. Tenere testa ai talebani è impossibile. Anche perché la loro presenza nel paese continua a crescere", spiega al quotidiano britannico The GuardianAbdul Jabbar Qahraman, ex inviato presidenziane nella provincia afghana di Helmand, molto vicina al confine col Pakistan. Aggiungendo con grande rammarico come "anche uccidendo tutti i giovani, la prossima generazione tornerebbe ad abbracciare il movimento talebano. Fino a qualche tempo fa l'insurrezione era una questione di business. Ora si gioca tutto sul desiderio di vendetta".
Vendetta contro chi? Certamente contro l'alleanza Nato, come dimostra l'ennesimo attacco talebano messo a segno il 2 agosto contro un convoglio che si stava dirigendo verso l'aeroporto di Kandahar. Un attentatore suicida a bordo di un'autobomba si è fatto esplodere contro il convoglio della Missione Nato "Resolute Support" uccidendo due militari americani e ferendone altri quattro.
Gli attacchi improvvisati con ordigni fai da te sonno da sempre il modus operandi preferito dei talebani. E sono efficaci visto che negli ultimi anni hanno permesso ai militanti di recuperare facilmente terreno. Nella provincia di Helmand, ad esempio, i giovani guerriglieri stanno riconquistando città dopo città. Come se non bastasse, se è vero che l'esercito è in affanno e avrebbe bisogno di rinforzi esterni, è anche vero che l'Afghanistan sembra essersi assestato su un equilibrio tale per cui qualsiasi intervendo da parte delle truppe Nato non fa che aumentare il consenso, e la simpatia, per i movimenti insurrezionali.
Claudio Bertolotti, ricercatore associato per l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (ISPI) e per la piattaformaSpace, già capo sezione contro-intelligence della Nato in Afghanistan, è forse la persona più adatta a spiegare non solo cosa sta succedendo in Afghanistan, ma anche perché i talebani, oltre a villaggi e città, sembrano in grado di conquistare oggi anche i cuori e l'anima dei loro concittadini, invogliandoli ad abbracciare la loro causa.
"Il numero dei talebani dal 2001 ad oggi non è mai diminuito, passando da alcune migliaia nel 2001 alle oltre 50mila unità che opererebbero oggi in Afghanistan, e in parte in Pakistan. E questo nonostante gli oltre 40mila caduti tra i gruppi insurrezionali (tra i quali i talebani) impegnati in quella che viene combattuta come "guerra di liberazione nazionale", in opposizione a un governo considerato "fantoccio" sempre più lontano dalle esigenze della popolazione e contro un'occupazione straniera di cui gli afghani non comprendono più le ragioni. Ed è un aumento numerico, e dunque anche sociale, che procede parallelamente all'espansione geografica dei territori che cadono sotto il loro controllo; un'espansione in essere da 17 anni ma accelerata dal ritiro delle forze statunitensi e della Nato a partire dal 2014, e dal conseguente passaggio di responsabilità a forze di sicurezza afghane, stanche, corrotte e male impiegate".
"Questo sviluppo è certamente preoccupante, ma al momento irreversibile se affrontato con strumenti prevalentemente militari. Non sono riusciti gli oltre 150mila soldati di Barack Obama nel 2011-2013, non ci riusciranno i 4mila in più mandati da Donald Trump che porterebbero il livello attuale a poco più di 17mila unità, comprese le truppe Nato. Ne può servire un maggior impegno aereo attraverso bombardamenti estesi o mirati. Come se non bastasse, un nuova fonte di preoccupazione è legata all'arrivo di un nuovo attore della violenza che ha saputo imporsi con la forza: l'Islamic State Wilayat Khorasan, meglio noto come l'Isis in Afghanistan".
"I talebani hanno attraversato un momento di grave difficoltà dopo la morte del loro storico capo, il mullah Mohammad Omar (morto nel 2013 ma reso noto solo nel 2015) e il processo di frantumazione conseguente alla nomina del suo discusso successore, il mullah Aktar Mansour. Oggi il nuovo leader talebano, il mawlawi Hibatullah Akhundzada, sembra essere riuscito a riunire parte della galassia talebana e a spingere il movimento verso l'auspicato processo negoziale. Ma nel frattempo molti se ne sono andati e sono andati a rinforzare il sempre più significativo franchise di uno Stato islamico in Afghanistan che sta imponendo la sua presenza attraverso attacchi sempre più violenti e spettacolari, con l'intento di spingere il paese in una nuova fase della guerra civile di impronta settaria, di sunniti contro sciiti. Questa è la vera minaccia per il futuro".
"Una soluzione negoziale, ciò a cui si sono piegati gli stessi americani e gli attori regionali preoccupati dalla crescente violenza in Afghanistan – primi i cinesi che nel sottosuolo afghano hanno investito moltissimo e rischiano di perdere questa opportunità di accesso agli idrocarburi, ai minerali rari e al rame del bacino di Aynak, area a sud di Kabul sotto controllo talebano. Un accordo negoziale che significa power-sharing, cioè il riconoscimento sul piano formale di ciò che i talebani già detengono su quello sostanziale, e condivisione dei proventi delle ricchezze del sottosuolo come base su cui costruire una strategia ottimale. I talebani stesi si sono offerti come security providerper quelle infrastrutture strategiche che loro stessi minacciano: potrebbe essere un primo passo, anche se ciò significa per l'Occidente dover ammettere la sconfitta. Ma a questo punto non vi è via di uscita alternativa".
"Da un lato la popolazione afghana non comprende più le ragioni di una presenza militare straniera che viene recepita sempre più come occupazionetout court. Nessuno oggi sa dell'11 settembre, di Osama Bin Laden e della war on terror avviata da George W. Bush. In più i talebani - e gli altri gruppi di opposizione armata -, a differenza dei soldati della Nato, sono afghani: i secondi hanno tentato, ma poi fallito, di conquistare "cuori e menti" degli afghani, i primi ci sono riusciti attraverso una narrativa fatta di identità afghana, lotta all'oppressore, ma anche fornendo risposte immediate ed efficaci ai problemi della popolazione. Giustizia, sicurezza, lavoro... certo, parliamo di sharia e giustizia sommaria, discriminazione di genere e violenza, narcotraffico e arruolamento retribuito, ma sono pur sempre opportunità altrimenti negate da un governo afghano incapace di far sentire la propria presenza al di fuori delle principali aree urbane, e oggi neanche più quelle. I talebani hanno vinto perché sono accettati dagli afghani, e non parliamo solamente di talebani pashtun che vengono accettati dalle popolazioni pashtun del sud e dell'est, ma parliamo anche di talebani uzbeki, turmeni, sempre più numerosi e capaci di coinvolgere le proprie comunità".
E' molto amara la conclusione di Claudio Bertolotti, che ritiene non ci sia più tempo per pensare di convincere la popolazione a schierarsi con le forze internazionali. “"E' andata così, facciamocene una ragione e concentriamoci su accordo negoziale e contributi in termini di cooperazione civile e prepariamoci a una privatizzazione dell'impegno afghano attraverso società di contractors sempre più presenti e meno visibili".