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September 16 2012
Prima di dedicarsi alla letteratura, diventando lo scrittore spagnolo più venduto al mondo, è stato inviato di guerra sui fronti più caldi del pianeta. Ma la passione costante e assoluta di Arturo Pérez-Reverte, la sostanza di cui sono fatti i suoi romanzi e la sua visione del mondo, è il mare su cui è nato (Cartagena, 1951) e in cui non ha mai smesso di navigare. Come spiega qui mentre esce in Italia il suo ultimo libro: Le barche si perdono a terra (Tropea editore), una raccolta di testi editi e inediti che copre un arco di quasi 20 anni.
Argomento del libro è il mare, la navigazione come metafora dell’esistenza. Quanta parte ha avuto il mare nella sua formazione umana e letteraria?
Sono nato in una casa sul mare, in una famiglia di marinai, e sono cresciuto in un porto del Mediterraneo. Le biblioteche di mio padre e di mio nonno erano piene di libri sul mare. Gli altri ragazzini imparavano a memoria le formazioni delle squadre di calcio, io conoscevo l’elenco completo dell’equipaggio del Pequod e del Bounty o i nomi delle navi su cui aveva navigato Joseph Conrad. Era naturale, quasi obbligatorio, che il mare influenzasse parte della mia formazione e della mia vita.
Il libro si legge come un giornale di bordo: ci sono i fari, le navi, le taverne dei porti, le traversate notturne. C’è molta amara ironia sul mondo di oggi. E molto pessimismo. Il mare è per lei un rifugio, una speranza di salvezza?
Diceva Conrad che l’unica vera pace dello spirito comincia molte miglia al largo della costa più vicina. Sono d’accordo. Ho 60 anni e non mi faccio illusioni sulla condizione umana. Una delle poche certezze che conservo è una fede granitica nella illimitata propensione alla stupidità del genere umano. Il mare offre diverse controindicazioni. Permette di osservare la terra con maggiore calma. Migliora la percezione del genere umano: uomini che a terra disprezzeresti possono guadagnarsi in mare il tuo rispetto. E al mare non si può mentire. Quando ci sei dentro, con le vele spiegate e il vento che soffia a 35 nodi, non puoi fingere ciò che non sei: nel mare sei nudo.
In un divertente passo lei si scaglia contro i produttori di jeans: non si trovano più quelli di una volta, quelli che «ci vuole tutta una vita per viverli e consumarli». Si sente un nostalgico dei tempi andati?
No. Sono nostalgico di alcune specifiche attitudini che gli uomini avevano in passato e che hanno perduto. Per questo mi piace così tanto il mare, dove molte cose tornano a essere ciò che sono sempre state. Il mare esige che gli uomini mettano in pratica virtù che a terra hanno cessato da tempo di essere necessarie e sono talora malviste.
I suoi libri sono colmi di riferimenti al mondo classico e alla grande letteratura di mare. La storia è più interessante dell’attualità?
Il presente è stimolante, ma non è niente senza la storia che lo spiega e ti insegna a sopportarlo. Non c’è peggiore sciagura di essere orfani del proprio passato. Per me la storia è un analgesico: sapere che tutto è già successo è una consolazione.
È lo spirito d’avventura, così essenziale nei suoi romanzi, che l’ha spinta a diventare un corrispondente di guerra?
Più la curiosità che lo spirito d’avventura. Volevo rendermi conto se il mondo somigliasse a quello che avevo conosciuto sui libri letti da ragazzo. Se c’erano amici leali, nemici intelligenti, belle donne, paura e coraggio, trionfi e disfatte. Così presi uno zaino vuoto e me ne andai alle isole dei pirati, per vedere se era vero. Ora, tornato da quelle isole con lo zaino pieno, scrivo romanzi per raccontare quello che mi hanno insegnato Long John Silver e i suoi foschi compagni.
Nel 1994 ha cambiato mestiere. O è solo cambiato il suo linguaggio?
Continuo a essere un uomo che osserva e che a volte, non sempre, racconta quello che vede. Un uomo che guarda da una biblioteca formata dalla mia vita e da libri scritti da altri. E che con i relitti di migliaia di naufragi personali e altrui scrive romanzi.
Ha smesso di fare il giornalista nel momento in cui l’informazione è diventata globale. Che rapporto ha con l’informazione in tempo reale? Pensa che sia ancora possibile il mestiere del corrispondente di guerra?
È stata una delle ragioni che dopo la guerra dei Balcani mi hanno spinto ad abbandonare il mestiere di reporter: non m’interessava riciclarmi nel genere di giornalismo che si preannunciava. Il corrispondente di guerra è scomparso. Ora questo lavoro lo fanno migliaia di anonimi testimoni con una telecamera e con internet.
La guerra scarnifica la realtà, la rende assoluta. È lo stesso anche sul mare, la materia principale di cui per lei sono fatti le avventure e i sogni?
Ciò che più amo del mare è la sua indifferenza per le passioni e i sentimenti degli uomini. È crudele e ingiusto: una magnifica metafora dell’universo. Molto più sincero della terraferma, dove è più facile ingannare se stessi sulla vera natura delle cose. Il mare distrugge in fretta la visione cristiana di un dio buono e giusto. E l’idea stessa di un dio.
La dipingono come un misantropo, però alla fine di ogni sua solitaria traversata c’è sempre un incontro con l’uomo: il guardiano del faro, la prostituta in un bar, l’Olandese volante o il ramponiere Quiqueg. Sono gli uomini che va cercando?
Per ogni uomo buono o ragionevole ce ne sono almeno altri 100 crudeli od stupidi: è facile disprezzare o odiare l’umanità. È una tentazione molto forte per chi è lucido. La lucidità aiuta a vivere con intelligenza ma produce terribili sofferenze, è al tempo stesso una medicina e una malattia. Per questo è importante cercare le persone che fanno sì che il mondo e la vita abbiano ancora un senso. Nei giorni in cui vorrei piovesse napalm, e che tutto se ne andasse al diavolo come meritiamo, finisco per pensare che c’è sempre un giusto per cui Sodoma meriti di essere salvata. Incontrare queste persone e scrivere di loro è una consolazione. Non rimuove le ragioni della sofferenza che provoca la malattia della lucidità, ma aiuta molto a sopportarla.