Pescatori coraggiosi: l’esempio di Paolo Fanciulli

«La pesca a strascico illegale sta distruggendo i nostri mari»: è il grido d’allarme lanciato da Paolo Fanciulli, dai più conosciuto come Paolo il Pescatore, l’uomo che da quando aveva venti anni (oggi 61 ben portati, nonostante l’acceleratore dell’esposizione al sole e al sale) conduce la sua/nostra guerra contro i pirati della pesca che hanno distrutto – e in alcuni tratti continuano a distruggere – i fondali di posidonia del territorio costiero in cui è cresciuto e in cui anche io ho trascorso almeno una parte di ogni vacanza estiva dalla nascita a oggi.







L’eco di quel grido non si è mai affievolito: se è vero che grazie a Paolo e alle sue battaglie (più reali e rischiose di quanto si possa immaginare) nelle venti miglia comprese tra Porto Santo Stefano e le Bocche dell’Ombrone la “guerra” termina nel luglio 2006 con la posa sul fondo marino dei dissuasori (126 blocchi di cemento uniti in gruppo da un cavo d’acciaio per bloccare le reti a strascico entro le tre miglia dalla costa, impedendo così la pesca illegale), è altrettanto vero che ancora oggi, e anche non molto lontano dal porto di Talamone da cui Paolo ogni giorno e ogni notte salpa con le sue barche (il motopesca Sirena e una più piccola e veloce lancia con cui esce la notte), la pratica distruttiva propria dello strascico illegale prosegue con danni incalcolabili. In realtà sono stati stimati: una sola imbarcazione di medie dimensioni può distruggere sino a 363.000 piante di posidonia per ora di lavoro. Il dato – un virgolettato di Fulco Pratesi, presidente onorario del WWF e autore della prefazione de “La Casa dei Pesci – Storia di Paolo il Pescatore” di Ilaria De Bernardis e Marco Santarelli, Palombi Editori – fotografa senza sconti né ritocchi post produzione la drammatica entità del fenomeno. «Spengono scientemente i gps per sparire dai radar e agire indisturbati, nottetempo, con catene e anelli micidiali, sotto le coste di Giannutri e Montecristo, le stesse dove se ti avvicini troppo con una barca a vela sei suscettibile di multe salatissime». Me lo racconta Paolo in occasione dell’uscita con la sua barca, oggi Sirena, ieri la più piccola Daniela e ancor prima il Maestrale, con cui porta i turisti in escursione per raccogliere le reti calate la notte e raccontare una storia di saperi artigiani fatta di conoscenza, amore e rispetto per la fauna e la flora sottomarina e costiera del mare di Talamone. Non un “semplice” peschereccio, ma un mezzo di alta finalità: didattica, culturale, scientifica e, soprattutto, una barca – e un comandante – “sentinelle” del mare.

La sveglia suona alle 7 (ne vale la pena anche in vacanza) per essere a bordo, pronti per l’uscita, alle 7.30. Da quel momento faccio ufficialmente parte dell’equipaggio: Paolo e i suoi giovani, ma già esperti pescatori oltre che agili aiutanti nelle manovre, e il resto della comitiva, in cui gli accenti e le lingue straniere si accavallano immediatamente per uno scambio di saluti e, poco più tardi, di entusiasmi. Una sorta di eccitazione in cui la voglia e il piacere della nuova scoperta si intrecciano con lo spirito dell’avventura e della sete di riempire occhi, narici e orecchie dei colori, paesaggi, profumi e suoni che solo quel pezzo di Toscana sa rendere unici e memorabili. La macchia mediterranea è ancora inumidita dalla rugiada del primo mattino, il porto ancora sonnacchioso, i turisti della prima metà di agosto non ancora ai tavolini dei bar, i gommoni a noleggio in banchina ancora coperti dai teli protettivi. L’unico segnale che indica l’inizio di una nuova giornata arriva dal benvenuto a bordo del comandante che, dopo aver suggerito alla coppia di austriaci dove parcheggiare l’auto, ci accoglie con il sorriso e l’entusiasmo del cicerone che ha tanto da raccontare. Appena usciti dal porto ci offre le schiacce calde ritirate pochi minuti prima dallo storico panificio entro le mura di Via Giuseppe Garbiladi (of course…), una colazione irrinunciabile per chi frequenta Talamone. Le gustiamo seduti sulle panche in legno servite dalla vasca del vivo, che in quel momento funge da tavolino, leggendo alcuni degli articoli realizzati dalle più importanti testate internazionali (il 30% degli escursionisti è rappresentato da stranieri) che Paolo ha accuratamente plastificato per proteggerli dalle intemperie e dall’usura. Costeggiamo intanto l’abitato, la spiaggia del Cannone, le mura medievali, il faro, la Rocca Aldobrandesca, il Bagno delle Donne (così chiamato per distinguerlo da quello degli Uomini, di cui naturalmente solo i nostri avi hanno memoria) e con la prua rivolta a Nord ci lasciamo alle spalle le ultime residenze a picco sul mare e, via via, la Torre di Capo d’Uomo e tutte le altre strutture di avvistamento (realizzate nel secondo millennio come avamposto difensivo dagli attacchi dei pirati turchi) che coronano le punte e le scogliere del Parco dell’Uccellina, dal 1991 Area protetta insieme allo specchio di mare che arriva sino alle Formiche di Grosseto. L’istinto è stato quello di puntare lo sguardo alla terrazza più alta di casa e salutare nonna che da lì aspettava il nostro arrivo. Era una consuetudine estiva, un appuntamento fisso di me bambina quando a Talamone andavamo in barca, dal Magra, e all’altezza di casa ci tuffavamo (io e mio fratello Andrea) per raggiungere a nuoto la caletta, risalire le scale e abbracciare nonna Eugenia, che ci aspettava con il crème caramel pronto per la merenda.

Nel frattempo mamma e papà arrivavano in porto, ormeggiavano Meltemi e percorrevano a piedi Via Cala di Forno per riunirsi a noi. Ho dovuto accontentarmi di guardare quella terrazza, oggi vuota, scattare qualche foto, per archiviare anche sul telefono quanto i ricordi non potranno mai cancellare. Torno al presente, dobbiamo raggiungere il punto in cui occorre liberare tre nasse rimaste incagliate nel relitto di un mezzo da sbarco tedesco, a circa 13 metri di profondità, al largo di Cala di Forno. Al recupero provvederà Piergiorgio Stipa, biologo marino ed esperto subacqueo con noi sul Sirena per portare a termine la sua missione. L’acqua è calma e limpida, l’operazione si conclude senza intoppi mentre da bordo ci concentriamo sull’ecoscandaglio che riporta chiaramente la sagoma dell’unità affondata.

Gli applausi di rito salutano la riuscita del disincagliamento e il nostro compagno di viaggio, che rientrerà in porto con il gommone trainato sino a quel momento dal Sirena. Ci dirigiamo quindi nel punto in cui Paolo ha scelto di calare il tramaglio, quello in cui la sua esperienza, le condizioni meteo della notte precedente e il radunarsi dei gabbiani gli indicano come migliore. L’escursione lungo costa prosegue alla volta del Salto del Cervo per il momento più atteso: il recupero della rete gettata al chiaro di luna. Un’operazione lunga e meticolosa che parte dal passaggio della cima assicurata al galleggiante sull’argano di prua.

Assistiamo in religioso silenzio alla formazione di un cumulo di filo intrecciato (1.400 metri) che si trasformerà in una montagna accatastata ai nostri piedi. Mentre i suoi aiutanti salpano la rete, Paolo toglie a mano i pesci, illustrando di ognuno caratteristiche, abitudini e metodi di cucina. Quelli che si sperimenteranno con estrema soddisfazione, e con il conforto e il compiaciuto orgoglio delle nuove nozioni acquisite, alla grande tavola di casa Fanciulli. Dirigiamo sottocosta, avvicinandoci alle Cannelle, per un tuffo ristoratore in acque che più trasparenti e calde (persino troppo…) non si può. Paolo, nel frattempo, lavora. Non c’è tempo da perdere: deve procedere alla prima, fondamentale, pulizia del pesce che servirà per la cena. A mano a mano che risaliamo in barca siamo nuovamente rapiti da tecnica, destrezza e scaltrezza, abilità che solo pescatori artigiani esperti sono in grado di impiegare e tramandare. È il momento di ripartire alla volta di Talamone, in un viaggio di rientro che ha il sapore dell’adrenalina raggiunta dall’avanscoperta. Oltre a quello dell’ottimo bianco, servito rigorosamente fresco insieme alla pizza rossa (come da queste parti si usa chiamarla per distinguerla dalla schiaccia bianca) come aperitivo dell’ora di pranzo e, magari, di un nuovo modo di fare vacanza e insieme esperienza.

Pioniere del pescaturismo e dell’ittiturismo in Italia, Paolo Fanciulli apre da anni le porte della sua casa a cittadini, viaggiatori, turisti per cucinare per loro quanto pescato poche ore prima e fare cultura del mare. Bravissimo anche come intrattenitore e divulgatore, non sale in cattedra, ma scende nel Blu e nel linguaggio verbale e gestuale genuino e schietto della “gente di mare”, che coinvolge da autentico showman e, insieme, da guida esperta e volano di conoscenza e coscienza. Quelle che riesce a trasmettere, con estrema naturalezza e convinzione, a grandi e piccini mentre spiega come riconoscere un’orata maschio o come difendersi da uno scorfano, mentre pulisce il pesce o proietta le innumerevoli interviste andate in onda negli anni in Italia e all’estero o, ancora, mentre richiama i commensali intorno a sé e ai suoi compagni di pesca durante l’imperdibile momento della cottura alla griglia. Le cene a casa di Paolo coronano l’esperienza vissuta in mare: una splendida giornata che, citando Vasco Rossi, potremmo definire “straviziata, stravissuta, senza tregua”. Come senza tregua continua a essere il grido d’allarme lanciato da Paolo sin dai primi Anni Ottanta e, soprattutto, la sua missione: difendere i pesci offrendo loro riparo, protezione e un luogo ideale in cui vivere, nascondersi e riprodursi. È esattamente l’habitat offerto dalle dimensioni, dalla forma, dalle aperture laterali dei blocchi (non semplici pezzi di cemento) posati sul fondo marino. Da quel giorno non solo si corona il sogno di una realizzazione studiata e progettata per essere offensiva verso lo strascico, ma si assiste alla riuscita dell’altro grande obiettivo: salvare e salvaguardare i pesci più piccoli e il loro territorio.

Il passo successivo, proprio perché la mente e l’opera di Paolo non conoscono pause, è la nascita de La Casa dei Pesci (abbreviazione di Associazione onlus Comitato per La Casa dei Pesci): “una schiera di pacifiche sentinelle scolpite nel marmo che, come invincibili Poseidoni, proteggano i pesci e combattano i loro nemici” (da La Casa dei Pesci, Palombi Editori). Il progetto nasce nel 2012 e diventa realtà con la straordinaria donazione di 100 blocchi di marmo da parte di Franco Barattini, proprietario delle Cave Michelangelo di Carrara. Oggi, grazie all’opera di un nutrito gruppo di artisti di diverse nazionalità e, ancora una volta, al crowfunding (già dimostratosi fondamentale per far decollare il progetto dei dissuasori), La Casa dei Pesci è un museo sottomarino di 39 sculture calate in due momenti (le prime venti nel 2015 e le altre diciannove nel 2020) di fronte a Talamone e lungo la costa dei Monti dell’Uccellina. Queste statue si sono ricoperte, nel giro di pochi mesi, di alghe e vegetazione che, come folte chiome che incorniciano i tratti delle opere marmoree, danzano al ritmo delle correnti dando ricovero, e soprattutto una casa destinata a durare millenni, a orate, spigole, salpe e polpi. La fauna e la flora marine si sono così riappropriate dei loro spazi. L’augurio che mi sento di fare a Paolo e a noi tutti è quello di veder crescere, scultura dopo scultura, quella bellezza sommersa in cui solo la pesca sostenibile ha diritto di cittadinanza. Un auspicio che, anche con i proventi derivanti dalla vendita del libro di Ilaria e Marco, non è poi così utopistico. Paolo, del resto, non smette mai di ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile quanto sin qui realizzato: «Tutto questo è anche merito vostro. Siamo in ritardo, ma il percorso è iniziato. La Casa dei Pesci è qui a testimoniarlo».

Una gratitudine che fa il paio con la missione di ogni attento pescatore artigianale: ideale (reale, nel caso di Paolo Fanciulli) guardiano della casa, dei pesci e nostra.

info: gentedimareonline.it

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