Economia
May 26 2017
Nonostante l'accordo sui tagli alla produzione, perché il prezzo del petrolio non riesce a stabilizzarsi sopra i 50 dollari al barile?
È questa la domanda cui stanno cercando di rispondere osservatori, esperti e investitori a un giorno dal decisivo meeting dell’Opec a Vienna, città dove ha sede il cartello dei paesi produttori, cui hanno partecipato anche i paesi non aderenti al cartello, rappresentati dalla Russia.
Cosa è successo
L'intesa, appunto, c’è stata: dentro l'Opec (che si è allargato alla Guinea Equatoriale), ma anche con Mosca e i paesi alleati.
Si è deciso di estendere il taglio alla produzione di 1,8 milioni di barili per altri 9 mesi.
Non si è ripetuto, quindi, quanto accaduto lo scorso anno a Doha, quando il mancato accordo tra Arabia Saudita e Iran (intesa raggiunta poi a fine settembre), aveva spinto di nuovo al ribasso il prezzo del greggio.
Ma non si è visto (e difficilmente si vedrà nelle prossime settimane) il rally che ha portato il prezzo ampiamente sopra il 50 dollari a fine 2016, a seguito del precedente incontro di novembre, quando i paesi del cartello avevano deciso di passare quasi 34 milioni di barili al giorno a un range compreso tra i 32,5 milioni.
La reazione dei mercati
La notizia dell’accordo avrebbe dovuto calmare i mercati.
E invece ha avuto l’effetto opposto: il Wti è sceso del 5% sotto i 50 dollari, mentre il Brent (petrolio estratto nel Mar del Nord) è calato a poco sopra i 52 dollari al barile.
Alcuni osservatori fanno notare che l'intesa, ampiamente attesa da molti investitori, era già prezzata dal mercato.
A far scattare le vendite, invece, sono state le parole del ministro saudita Khalid Al-Falih che hanno spinto i fondi di investimento a chiudere le posizioni rialziste assunte in vista di una sorpresa dal vertice.
I più ottimisti si aspettavano una risposta forte, ma Al-Falih ha detto che pur essendo stata esaminata, l’ipotesi di ampliare il taglio era stata scartata.
Il fattore shale oil
C’è poi un altro fattore da considerare, l'altro paese non Opec che, di certo, non è rappresentato dalla Russia: negli USA, infatti, la capacità di ripresa dello shale oil, il petrolio estratto dalla frantumazione di rocce bituminose, rappresenta un ostacolo alla politica dei prezzi del cartello.
Gli investori, detto altrimenti, non sono convinti che l’Opec e gli altri maggiori paesi produttori che non fanno parte del cartello (come appunto la Russia) riescano a far fronte alla resistenza dell’industria dello shale americano, in grado di ristrutturarsi a livello aziendale e di incrementare la produzione disponibile negli ultimi mesi.
Platts, che considera fonti secondarie per monitorare i paesi Opec (che spesso non fanno quanto pubblicamente rendono noto), fa notare proprio l’impegno dell’Arabia Saudita, che negli ultimi quattro mesi ha tagliato 106.000 barili al giorno in più rispetto ai 486.000 annunciati.
Perché gli americani resistono
"L’industria dello shale è tornata all’assalto e sta minacciando l’azione dell’Opec per riequilibrare il mercato" ha detto un analista di Citi.
Lo dicono i numeri: negli ultimi dieci mesi il numero degli impianti in funzione è salito da un minimo di 262 ad oltre 600, mentre la produzione è aumentata di quasi 0,35 milioni di barili a giorno. "Anche se il movimento dello shale statunitense non vanifica completamente gli sforzi dell’Opec, questo cambiamento delle dinamiche dell’offerta sui mercati ha indebolito il prezzo del petrolio" ha aggiunto Nizam Hamid, ETF strategist di WisdomTree.
Difficile, quindi, che le quotazioni possano risalire nel breve termine: gli attuali livelli sono sostenibili dallo shale, che torna a essere profittevole con un prezzo di 48 – 50 dollari al barile, ricordava di recente un analista di BNY Mellon IM.