Economia
January 19 2016
La "profezia" di Goldman Sachs si è avverata. Lo scorso settembre gli analisti della banca d’affari americana pubblicarono un report shock sulla discesa del prezzo del petrolio che sarebbe arrivata fino a 20 dollari.
Un valore pari a un quinto rispetto alla media di 100 dollari registrata tra il 2008 e il 2014.
Quattro mesi dopo circa le quotazioni del greggio sono scese sotto i 30 dollari al barile, tanto da spingere altri analisti, quelli della banca londinese Standard Chartered, ancora oltre prevedendo che la picchiata possa prolungarsi fino a 10 dollari al barile. Fantascienza? Staremo a vedere.
Intanto, ieri a placare le acque ci ha pensato l'Opec stesso che ha pubblicato le proprie stime e parla di un "riequilibrio della produzione mondiale" entro quest’anno.
A leggerlo bene, si scopre però che a far rialzare i prezzi non saranno i paesi Opec, ma quelli non Opec (tra cui Usa, Russia, Norvegia): alla fine non resisteranno ai bassi prezzi e saranno costretti a tagliare la produzione.
La strategia messa in atto dall’Arabia Saudita da ottobre 2014 sembra funzionare. Riad nei mesi successivi ha continuato a tagliare i prezzi per mantenere le proprie quote di mercato e sbaragliare i concorrenti.
Primo fra tutti, anche in un'ottica geopolitica di riassetto dell'intero Medio Oriente, l'Iran (membro dell'Opec).
Dopo la cancellazione delle sanzioni a seguito dell’accordo sul nucleare, Teheran ha annunciato proprio ieri un incremento della sua produzione di 500.000 barili al giorno (prima delle sanzioni, nel 2011, ne produceva 2,5 milioni).
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A perderci saranno anche le principali compagnie petrolifere occidentali.
Gli analisti di Barclays, in un report pubblicato ieri, hanno indicato che i prezzi attuali del greggio non solo sono sotto il livello necessario perché i nuovi progetti di estrazioni siano profittevoli (breakeven), ma "stanno cominciando a mettere in seria difficoltà il mantenimento della produzione in quelli già esistenti", tanto che la britannica BP ha annunciato di recente il taglio di 4.000 posti di lavoro a seguito del calo del prezzo del petrolio.
"Un periodo prolungato di prezzi sotto i 40 dollari potrebbe essere devastante sul fronte dei fornitori" scrivono gli esperti. Che assicurano: il greggio tornerà a salire l'anno prossimo fino a raggiungere quota 75 dollari al barile entro il 2020.
Il prezzo di breakeven, invece, è fondamentale per i produttori shale oil americani: i pozzi non convenzionali, a differenza di quelli tradizionali, si esauriscono rapidamente obbligando a creare nuovi giacimenti per mantenere costante la produzione. E a estrarre petrolio di scisto ora ci si rimette.
Oltre agli iraniani e ad altri competitor come la Russia, i sauditi infatti vorrebbero mettere i bastoni tra le ruote degli "amici" americani, che dallo scorso 18 dicembre, dopo 40 anni, hanno abolito il divieto all'export di petrolio e sono pronti ora a vendere l’oro nero estratto dalle rocce in tutto il mondo.
Quanto durerà la corsa al ribasso? "A un certo punto qualcuno avrà bisogno di produrre meno greggio" scrivono gli analisti di Morgan Stanley, che hanno pubblicato di recente anch'essi un report (è di tre giorni prima,15 gennaio), e i prezzi torneranno a salire.
Non sarà di certo l'Aramco, la compagnia di stato saudita (che però non è menzionata nel report).
Bisogna guardare altorve. La banca d'affari americana ricorda, in merito, che durante il 2015 gran parte delle maggiori compagnie petrolifere, tra cui la norvegese Statoil e la francese Total, aveva sviluppato piani sostenibili per quest'anno con un prezzo di 50 - 60 dollari.
Sotto dei 30 dollari non sanno cosa fare.
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Chi vince e chi perde tra gli Stati
Non lo sanno neanche gli uomini di Putin. Stessa storia: avevano predisposto il bilancio 2016 con un prezzo di 50 e non di 30 dollari al barile.
Questo spiegherebbe perché Mosca si stia preparando, secondo quanto riporta il giornale economico russo Vedomosti, a un taglio della spesa pubblica del 10%, come hanno già fatto nei mesi scorsi i paesi del Golfo.
Il petrolio al tappeto, infatti, mette in difficoltà i bilanci dei paesi le cui economie poggiano sull'export di materie prime, come il Venezuela che è a un passo dal tracollo.
Non solo. Assieme al riequilibrio della Cina e al rallentamento generalizzato delle economie emergenti, il recente calo dei corsi del greggio ha portato il Fondo Monetario internazionale proprio oggi a rivedere al ribasso le stime sulla crescita globale pubblicate a ottobre: +3,4% da +3,6%.
Diverso, invece, è l'impatto per i paesi importatori, come l'Italia e gli altri paesi dell'Eurozona, che si avvantaggiano dal basso costo della materia prima sia a livello industriale sia dei consumi.
Stesso discorso per i paesi importatori di materie prime nell'universo emergente, come India, Turchia e Sud Corea.