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February 10 2023
Un grande e bell’esempio di persona e professionista che, grazie a passione, dedizione e perseveranza infinite, è riuscito a realizzare il sogno coltivato sin da ragazzino. Nel caso specifico: disegnare auto per i grandi carrozzieri italiani. Cui si sono aggiunti, insieme e più avanti, i progetti per moto, scooter, biciclette elettriche, barche e non solo. «I manufatti che stanno fermi non mi hanno mai attratto più di tanto, mentre sono sempre stato appassionato degli oggetti che si muovono e, sin da piccolo, del disegno». Un’attitudine, ci racconta Pierangelo Andreani (la foto in apertura è di Andrea Muscatello, per gentile concessione di Barche), condivisa con il padre e prima ancora con il nonno che, nel lontano 1903, avviò la sua attività lavorativa dedicandosi alla costruzione di manufatti in cemento.
«Un mestiere che ha poi portato avanti con mio padre, allargando le realizzazioni alle piastrelle in marmo e graniglia che si usavano negli Anni Cinquanta. Ho visto loro eseguire bei lavori di disegno ma anche di scultura: usavano la creta per realizzare i modelli per gli stampi in gesso necessari a costruire balconi, ringhiere e tutti quei motivi esterni delle abitazioni tipici del periodo dell’Art Decò. A Sondrio, dove sono nato e cresciuto, non esisteva all’epoca un Liceo Artistico. Scelsi allora di assecondare la mia passione per il disegno iscrivendomi all’istituto tecnico per geometri, una scelta che poteva servire anche nell’attività di famiglia. In quei cinque anni, ogni pagina o spazio bianco che mi trovavo tra le mani rappresentava un invito subliminale a dare sfogo alla mia creatività. Ogni centimetro libero finiva inevitabilmente per essere ricoperto dai miei schizzi di auto. Una “chiamata” irrefrenabile stoppata solo una volta, durante una lezione di matematica, dal professore: “Guardi Andreani che qui non siamo mica alla Pininfarina. Smetta con quei disegnetti”». Quando si dice “i casi della vita”, ma anche “i segni premonitori”, a seconda delle prospettive e delle angolazioni di visuale, giusto per rimanere in tema. Perché Pierangelo Andreani, finite le superiori, e dopo un primo impiego alla Fiat, alla Pininfarina ci arrivò veramente. «Ed ebbi poi modo di farlo sapere anche al mio professore di matematica delle superiori, quello che mi esortava a lasciar perdere i disegnetti, incontrato per caso qualche anno più tardi». Intuisco che il racconto sarà appassionante e appassionato: solo in parte una sorpresa dal momento che sto ascoltando – penso tra me – un maestro del design con 52 anni di attività professionale ininterrotta alle spalle. Una vita, la sua, dedicata allo studio delle linee, dell’ergonomia, dello stile di diverse decine di modelli di auto, due ruote e barche tra le più ammirate e acquistate negli ultimi dieci lustri.
«La passione per il disegno delle quattro ruote era talmente forte e desiderosa di esprimersi che, anziché iscrivermi ad Architettura, come mio padre mi aveva suggerito di fare, mancando allora un’alternativa formativa specialistica, preferii non rimandare il sogno di uno sbocco lavorativo immediato e, finito il militare, iniziai a scrivere a un po’ tutte le aziende attive in quegli anni (siamo alla fine dei Sessanta, ndr). Anche alla Fiat, spronato questa volta da mia madre. Seguii il suo suggerimento anche se la mia massima aspirazione continuava ad essere quella di andare a disegnare per un grande carrozziere italiano. Nel frattempo, più o meno ventenne, partecipai al concorsoGrifo d’oro Bertone riservato a giovani appassionati di auto che dovevano presentare una proposta di car design, eventualmente accompagnata da un modellino in scala 1:10. Il mio progetto fu tra quelli segnalati e poi esposti a Torino. Quell’anno a vincere fu Enrico Fumia, che poi mi succedette alla Pininfarina, dove mi recai dopo la partecipazione al concorso, avendo ricevuto risposta a quella che probabilmente fu la prima delle tante lettere inviate. Stetti a Torino un paio di giorni ma sfortunatamente, nonostante gli elogi dell’allora direttore ai miei disegni, e in particolare a quelli in prospettiva, dovetti tornare a casa in quanto avevano appena assunto due ragazzi e l’organico prevedeva un team di 5/6 designers, non di più. “Tengo comunque io la sua cartella” mi disse dopo aver apprezzato i miei lavori, tenendo in quel modo viva la fiamma della mia più grande aspettativa. Mi rispose anche la Fiat. Lì rimasi dal dicembre 1970 a fine febbraio del 1972. Disegnai e feci il modellino in scala 1:10 di quella che sarebbe diventata la Ritmo, che adesso vari “padri”, da Walter de Silva a Sergio Sartorelli, si attribuiscono. Diciamo che la differenza tra il mio modellino e l’auto che poi uscì – tra l’altro nel ’78 e, quindi, con una gestazione lunghissima – stava tutta nei fari anteriori: tondi, anziché rettangolari come invece li avevo immaginati io». Storia vecchia, penso tra me, ritornando con la memoria al muso di quell’auto e al dettaglio dei fanali. Pierangelo Andreani va intanto avanti col suo racconto, dimostrando una certa fretta di archiviare il capitolo Fiat per arrivare al ben più gratificante e illuminato paragrafo Pininfarina. “Hanno chiamato! Forse si libera un posto”: la voce, a proposito dei casi di cui sopra, è quella della mamma, che aveva risposto al telefono di casa. «Il mattino successivo ero da loro. In Fiat mi avevano messo all’ufficio Studi Futuri e, da questo punto di vista, nulla da dire, considerando che una mia proposta del ’71 uscì poi nel ’78, ma per il resto mi sentivo un po’ messo lì, senza ben capire quale fosse effettivamente il mio ruolo… Della Ritmo non ho saputo nulla per almeno 2/3 anni sino a quando in Pininfarina, dove nel frattempo ero con grande gioia entrato, arrivarono dei disegni di un’auto di cui dovevamo stilizzare alcuni dettagli. Ironia della sorte, l’auto in questione era proprio la Ritmo». Il trionfo della Nemesi, il mio fumetto rigorosamente coi pallini… «In Pininfarina sono rimasto sino all’agosto del 1976: quattro anni e mezzo costellati di disegni di diverse auto presentate ai vari saloni. Ricordo, in particolare, la Jaguar XJ 12 del ’72, di cui curai il disegno esterno, e poi la Ferrari Mondial 8».
Sono seguiti gli anni alle dipendenze di De Tomaso, altra icona della storia automobilistica italiana. «Aveva acquistato Benelli, poi Moto Guzzi e, a ridosso del mio arrivo, Maserati. Stava per nascere mia figlia, vivevo a Sondrio, Moto Guzzi era a Mandello del Lario e le moto, insieme alle auto e alle barche, una mia passione. In quel momento era quindi una bella occasione. Iniziai con Guzzi ma il “conflitto” con Benelli, che sino ad allora era un brand concorrente pur con il suo filone del quattro cilindri in luogo del bicilindrico di Guzzi, continuava ad essere latente nonostante le due case motociclistiche si fossero nel frattempo trovate ad avere lo stesso “padrone”: ciò che si faceva da una parte veniva inevitabilmente “boicottato” dall’altra e viceversa. Era oltretutto un’epoca storica non facilissima non solo fuori ma anche all’interno delle fabbriche, eravamo negli anni di piombo, e De Tomaso, probabilmente stanco del clima che si era venuto a creare, decise di tagliare la testa al toro e mettere insieme a Modena un ufficio tecnico e un ufficio stile. Del secondo facevamo parte io e, per circa un anno, Jorge Arcuri, argentino naturalizzato italiano divenuto poi mio socio nella A System Design e, successivamente, nella Tria Design insieme a Canzio Lavelli. Jorge era anche uno di quei due ragazzi che erano appena entrati in Pininfarina la volta che andai da loro per quel provino a Torino». Visto che, come insegna Giambattista Vico, mi pare di aver capito che nella sua vita professionale la teoria dei corsi e dei ricorsi storici sia stata una costante importante, mi tolga una curiosità: chi era l’altro ragazzo appena arrivato in Pininfarina ad averle “soffiato” quella prima occasione di assunzione? «Pietro Stroppa, con il quale le strade si sono divise in effetti solo professionalmente, avendo poi condiviso con lui per anni la casa a Torino. La sua carriera è proseguita in Renault dove è rimasto sino alla pensione, ricoprendo incarichi importanti alla direzione del design».
Restiamo, invece, in De Tomaso dove Pierangelo Andreani ha firmato quasi tutte le moto Benelli e Guzzi realizzate negli anni dal 1976 al 1981, oltre alla famosa Maserati coupé, poi diventata Biturbo, nelle versioni due e quattro porte, e qualche anno più tardi la più grande 226, sempre di Maserati. Seguono un periodo di consulenza per Cagiva e Yamaha Italia e alcuni lavori per Nissan, Renault e Pininfarina insieme a Jorge Arcuri e Canzio Lavelli con cui Andreani si mise in società. L’attività di Andreani abbraccia nel frattempo il design industriale, che lo vede impegnato per anni nella progettazione delle carenature protettive delle macchine per il legno prodotte dalla SCM di Rimini, e ancora quello dei mezzi di trasporto a due ruote con la progettazione per una ditta del comasco di una bicicletta elettrica a pedalata assistita, uscita sul mercato con il nome di Albatros e commercializzata dalla Piaggio. Si chiude più o meno qui l’attività extra ambito nautico.
«Nelle imbarcazioni ho cominciato a lavorare quando ero ancora in Pininfarina. Andando a Torino passavo tutti i giorni davanti allo stabilimento Cranchi, che si era da poco trasferito lungo la mia strada. Decisi allora di fermarmi, era il 1975. Ad accogliermi c’erano Aldo Cranchi e una ventina di persone, tra fratello, moglie e impiegati. Mi raccontò della sua intenzione di realizzare barche in serie in vetroresina. Sino a quel momento le sole che si vedevano sul lago di Como erano costruzioni in legno non molto grandi: già un Riva Aquarama era considerata una barca di dimensioni importanti. L’avvento della vetroresina rappresentava un’opportunità enorme che non poteva esaurirsi nel ricalcare la barca in legno facendo una stampo su quella, come all’inizio si era portati a fare. Suggerii allora ad Aldo Cranchi di pensare a forme diverse. Disegnavo per lui la sera, dopo la giornata in Pininfarina, e il sabato gli portavo le mie idee. Iniziai così a conoscere e a confrontarmi anche con limiti e opportunità dello stampaggio (non erano necessari gli stampi costosissimi richiesti in ambito automotive) e dell’assemblaggio nella produzione nautica. Il suo obiettivo era costruire barche come in una perfetta catena di montaggio, tanto che fu uno dei primi ad acquistare la fresa per rifilare lo stampo in una camera chiusa prima di passare nella zona montaggio. È sempre stato maniaco della pulizia, dell’organizzazione e dell’ordine che dovevano regnare sovrani in tutte le stazioni, anche per non sprecare tempo prezioso in fase di realizzazione e assemblaggio. Riusciva così a fare numeri importanti: sino a 100/120 unità da 39 piedi all’anno. Un risultato anomalo per la nautica di allora, non essendo la maggior parte dei cantieri così avanzati. Il numero di barche è via via aumentato e con esso anche le dimensioni: dai 7/8 metri delle prime al 12 metri sino al 48 piedi, realizzato anche nella versione con il fly. Per Cranchi, arrivato a costruire sino a 750 barche all’anno, ho curato lo stile esterno e interno dei modelli prodotti dal 1975 al 2005».
L’esperienza professionale maturata in trenta anni di attività in ambito nautico lo fa approdare in Bénéteau, il cantiere francese dell’omonimo Gruppo per il quale continua a essere impegnato dopo aver firmato lo stile di diversi modelli delle gamme a motore Monte Carlo, Flyer, Gran Turismo e Swift Trawler, oltre a quello della sua prima barca a vela, l’Oceanis Yacht 62. Di Pierangelo Andreani sono anche gli studi di design realizzati per i catamarani a motore MY4.S (11 metri), MY5 (12,91 metri) e MY6 (14 metri) di Fountaine Pajot. Due collaborazioni significative, e foriere di prestigiosi riconoscimenti internazionali tributati a molti dei modelli firmati da Andreani, che sottendono la capacità di saper leggere aspettative e mercati differenti e di rapportarsi con produttori strutturati e orientati da sempre, come nel caso del Gruppo Bénéteau, su una produzione seriale contraddistinta da un buon rapporto qualità/prezzo. Cosa significa lavorare per un cantiere che fa grandi numeri? «È una sfida perenne, in cui occorre mettersi in gioco in continuazione. Ci si confronta con parecchie persone, ognuna animata a ottenere il risultato. Questo significa che prima di iniziare a tracciare una riga si ricevono molte indicazioni: a quale tipologia deve appartenere la barca, quanto deve misurare, quanto deve pesare, quanti posti letto deve avere e, non ultimo, quanto deve costare la produzione. Per il designer, quella delle limitazioni legate al costo rappresenta, di fatto, una sfida nella sfida. Personalmente faccio fatica a far vedere disegni al cliente se non sono realizzabili. E questo vale per qualsiasi oggetto. Devo essere sicuro che quello che gli sto mostrando sia fattibile: senza costi folli e realizzabile per soddisfare un bisogno specifico. Ho visto disegni di barche di 15 metri in cui non si poteva stare a bordo. Non funziona la logica “barca piccola persone piccole, barca grande persone grandi”. Ritengo sia molto più difficile, e quindi appagante, realizzare una Cinquecento o, per restare in tema, un barchino di 9 metri che deve contenere una cucina e una cabina con un’altezza interna di 2 metri, piuttosto che una Ferrari, una Lamborghini, che sono alte 1,20 metri, larghe 2 e lunghe 5, o un superyacht di 60 metri. Ma se osi obiettare, sa cosa rispondono? “Ma è un’emozione! Poi quando il cliente la sceglie, gliela mettiamo a posto”. Per farlo, puoi solo cambiare la proporzione e poi la barca diventa goffa e devi adottare qualche trucco per farla sembrare quella di prima. A me questo non piace. Oggi abbiamo a disposizione i software 3D mentre un tempo c’era solo la matita ma se si utilizzava il buon senso, applicando quanto meno una proporzione degli interni e degli esterni, difficilmente si sbagliava. Quando ho disegnato la Maserati Biturbo, non esisteva niente di quell’auto. Chiesi l’ingombro del motore, dei sedili e di quello che ci sarebbe dovuto stare e De Tomaso mi rispose “Non si preoccupi, lei faccia il disegno. Il motore ce lo faccio stare a pedate”». E come andò a finire? «Che ragionai sui punti fermi: un’auto con quattro posti abbastanza comodi, con il motore anteriore, un passo di tot e lunga (questo me lo ricordo ancora) 4,20 metri. Riuscii, quindi, a realizzare un disegno “fattibile”. Nel frattempo erano stati eseguiti il modello in gesso e il progetto del famoso motore. Non fu costretto a farcelo stare a pedate, ma dovette mettere la coppa dell’olio a secco, in quanto più bassa, perché altrimenti il cofano non si sarebbe chiuso. Oggi sarebbe impensabile disegnare un’auto dal nulla e riuscire pure a realizzarla».
In che cosa i costruttori francesi sono particolarmente abili?
«Sono molto attenti alla navigabilità degli scafi, a preventivare gli eventuali problemi che si possono incontrare, sia con le barche a vela sia con quelle a motore. Con questo non voglio dire che noi italiani non siamo seri, per carità, ma è indubbio che i grossi gruppi francesi, quelli con un ufficio tecnico strutturato, siano molto concentrati sugli anelli della catena produttiva, sui costi, sul rispetto delle norme, e in questo sono molto scrupolosi, sul realizzare barche che navighino bene. Sono generalmente più pragmatici di noi, fanno le cose con i piedi per terra, un po’ come avveniva da Cranchi quando iniziò la produzione seriale. Diciamo che in Italia siamo abituati a una nautica show off, mentre in Francia si respira maggior concretezza. I clienti dei trawler, per esempio, sono spesso marito e moglie in pensione, abituati a navigare davvero, talvolta con un passato nel mondo della vela, che è forma/funzione per definizione, persone molto esperte che, quando vanno ai saloni in cerca della loro nuova barca, le prime cose che guardano sono il vano motori e la razionalità degli spazi».
La cosa in cui, invece, sono meno bravi?
«Diciamo che non è un caso se si avvalgono di designers in buona parte italiani. Oltre al sottoscritto, solo per il Gruppo Bénéteau, ricordo Garroni, Nuvolari Lenard, Argento per la vela… E anche Gianguido Girotti (a.d. della divisione nautica, ndr). Questo la dice lunga. Loro riconoscono questa “superiorità” e per un francese non è un segno da poco. In realtà, non sono così supponenti e altezzosi come si è abituati a pensare. Lavoro con loro da tanti anni e di molti sono anche diventato amico, non sono mai sprezzanti. Anzi, ho trovato anche una certa apertura e informalità. Non è necessario andare al lavoro in giacca e cravatta, si possono indossare tranquillamente un paio di jeans e scarpe da barca. In questo assomigliano di più agli americani e ai tedeschi: meno apparenza e più senso pratico».
Non c’è che dire: Pierangelo Andreani è uno che sa il fatto suo. Non gli piace ostentare né osannarsi, parla chiaro, dice quello che pensa e si concentra sul suo lavoro con la mente aperta e lo sguardo sempre oltre l’orizzonte.
«Da buon designer non finisci mai di guardare cosa c’è dietro l’angolo. È uno stimolo continuo. Il giorno in cui non sarò più così interessato, così curioso, così pronto a immaginare come dovrò realizzare il nuovo progetto, sarà quello in cui smetterò di farmi coinvolgere in nuove avventure». Quel momento, fortunatamente, non è ancora arrivato. Non ci resta che pazientare per poter ascoltare nuovi, appassionati e appassionanti, capitoli del “sogno di bambino” di Pierangelo Andreani.