Lifestyle
March 21 2013
15 anni, su uno stradone di Barletta, sfidava in velocità una Porsche color aragosta e un’Alfa Romeo 1750 rossa: a piedi, sui 50 metri, batteva l’una e l’altra e guadagnava le 500 lire per pagarsi il cinema o un panino. A vent’anni, sulle piste di Monaco, sfidò gli atleti di tutto il mondo nella prima delle sue cinque Olimpiadi, cominciando a costruire la sua leggenda di velocista: la «Freccia del Sud». Oggi, a 57 anni, attacca Lehman Brothers e General Motors per tutelare gli interessi di risparmiatori italiani e proprio mentre sta per partire la prima class action italiana (a Torino, vedere il riquadro a pagina 86) pensa a lanciarne due sui giocattoli pericolosi e sulle vendite online. «Se c’è una sfida, io abbandono tutto e la seguo».
Pietro Mennea ha avuto molte vite, molte medaglie, molte lauree: mito dello sport nell’atletica degli anni Settanta e Ottanta, poi curatore fallimentare e insegnante di educazione fisica, eurodeputato e commercialista. Panorama lo incontra nello studio d’avvocato che divide con la moglie Manuela Olivieri, a un passo dal tribunale civile di Roma.
Al presidente del palazzo di giustizia si presentò alla fine degli anni Ottanta, quando appese al chiodo le scarpette con cui aveva stabilito record mondiali (uno, sui 200 metri, restò imbattuto per 17 anni, dal 1979 al 1996). «Mi ero iscritto fra i curatori fallimentari e mi sembrava giusto conoscere il presidente del tribunale. Mi disse: ma lei che ci fa qui? È venuto a perdere tempo?».
Ammetterà che è una bella metamorfosi: da campione olimpico a esperto in fallimenti.
Nessuna metamorfosi. Da sportivo, sono stato il migliore al mondo in una disciplina. Se il sistema funzionasse, avrei dovuto continuare a impegnarmi in quel campo. Ma non funziona.
Per questo ha cominciato a prendere una laurea dopo l’altra?
La prima, in scienze politiche, la presi su consiglio di Aldo Moro.
Perché proprio Moro?
Nel 1974 vinsi i campionati d’Europa. Moro, pugliese come me, era allora ministro degli Esteri. Mi invitò alla Farnesina, mi chiese che cosa stessi facendo. Risposi che studiavo all’Isef, l’Istituto superiore di educazione fisica. E lui mi raccomandò di iscrivermi all’università. L’ho fatto. Di nascosto.
Da chi si nascondeva?
Il mio allenatore non voleva che studiassi: gli sportivi non devono distrarsi, sosteneva. Così gli dicevo che andavo a salutare i miei genitori, a Barletta. Invece passavo da Bari e davo esami.
E le altre lauree: giurisprudenza, scienze motorie, lettere?
Io arrivo da una famiglia modesta: mio padre era sarto, mia madre, casalinga, lo aiutava a cucire. Ho studiato ragioneria perché da noi, al Sud, c’è il mito del posto fisso. Ma sognavo il liceo classico. Così, per sfizio, per passione, ho preso la laurea in lettere.
E il tempo per studiare quando lo ha trovato?
Studio sempre, mi piace. Anche a Bruxelles, da parlamentare europeo. L’ho fatto dal 1999 al 2004. Stavo lì quattro o cinque giorni a settimana, lavoravo davvero tanto. Ma la sera, uscito dal Parlamento, non sapevo che fare. Così studiavo.
Nessun rimpianto per la politica?
Nessuno. Come sportivo e come professionista, sono abituato a concludere le cose. In politica sembra che non si chiuda mai niente. Ma è stata una bella esperienza. Dalla Commissione europea mi è appena arrivato l’invito a fare parte di un gruppo di dieci esperti indipendenti di sport. Una bella soddisfazione.
Mai pensato di fare l’allenatore?
Nello sport come nella vita, io ho chiesto molto a me stesso. L’avrei fatto anche con gli altri, e dunque diventare tecnico o allenatore sarebbe stato problematico. Ho provato a insegnare educazione fisica: a Formia, in un liceo. Un giorno mi ha chiamato il preside. Professor Mennea, mi ha detto, dopo la sua lezione i ragazzi non riescono neppure a salire le scale, le famiglie si lamentano. Dopo due anni ho chiuso.
Ma che cosa faceva fare a quei poveri ragazzi?
Un po’ di sport. Gratis, per giunta. E quelli poi, magari, andavano a pagarsi una palestra... Per fortuna la vita è bella perché offre tante possibilità.
Per esempio, quella di reinventarsi come avvocato?
Ho anche scritto 20 libri, creato una Fondazione Pietro Mennea che ha, fra l’altro, il progetto di creare una grande biblioteca, mi sono impegnato per i disabili, i bambini nati col labbro leporino... Ho pure progettato un museo dello sport: ho 300 coppe, le medaglie d’oro, i doni di re Umberto e del presidente Sandro Pertini... Ai sindaci di Roma, Walter Veltroni prima e ora Gianni Alemanno, ho scritto che avrei aperto il museo senza chiedere un euro: non mi hanno neppure risposto.
Tutto, tranne che correre. Ci ha rinunciato per sempre?
Qualche volta lo faccio. Anche perché mia moglie protesta, dice: «Avevo sposato un campione del mondo...». Faccio fatica, però. Un giorno siamo andati a correre alle Terme di Caracalla. S’è avvicinato un tipo, vestito normalmente. Mi aveva riconosciuto: «Posso correre con lei?». Ho risposto di sì, col fiatone, e quello si è affiancato. A un certo punto io ero proprio in difficoltà e pensavo: ma come faccio a dirglielo proprio io che sono Mennea... Poi ho scoperto che era un maratoneta.
Le Olimpiadi e i processi. Che cosa li tiene insieme: la voglia di vincere?
No, quella di fare bene, di dare il meglio. A me lo sport ha insegnato il senso del dovere, la tenacia nel prepararsi, il lavoro. Mi allenavo cinque, sei ore al giorno per 365 giorni, Natale compreso. Alla fine degli anni Sessanta, quando cominciai la carriera, dicevano di me: è troppo magro, non avrà mai successo. Si è visto: sono l’unico velocista che ha disputato cinque Olimpiadi.
Progetti per il futuro?
Farò altre cose. Io non mi devo fermare.