Musica
March 01 2023
Nella storia della musica ci sono i grandi album e poi c’è The Dark Side Of The Moon, che è molto più di un disco: un’opera d’arte che contiene tutte le arti. Un viaggio nel lato oscuro della mente umana che è suono, poesia, avanguardia elettronica e genialità grafica. Non c’è nulla di ordinario nel capolavoro dei Pink Floyd, nemmeno la sua genesi, considerato che la band lo eseguì dal vivo per intero nel 1972, in Inghilterra e Giappone, prima ancora che uscisse nei negozi (nel marzo 1973) e mentre buona parte dei brani stava assumendo la forma definitiva tra le mura degli Abbey Road Studios, a Londra, nelle pause tra uno show e l’altro. È musica “classica” The Dark Side Of The Moon, e non solo perché ha venduto quarantasette milioni di copie nel mondo e ha trascorso, lungo le decadi, 962 settimane nella classifica americana e conquistato quattordici dischi di platino in Inghilterra. In Italia, nel 2021 è stato di gran lunga il vinile best seller, surclassando i giovani virgulti del rap, i Beatles, i Queen, i Rolling Stones e gli Abba.
Non c’è competizione possibile con il disco cult dei Pink Floyd perché i dieci brani che lo compongono sono altro rispetto alle classificazioni musicali standard. The Dark Side Of The Moon è in sé un genere musicale, un volo pindarico in un suono senza tempo né spazio. Ne è la prova il fatto che nessuna delle dieci canzoni che lo compongono è mai diventata veramente un singolo di successo. Perché “il lato oscuro” è un disco che si ascolta tutto dall’inizio alla fine, come un’opera classica che non si può interrompere per chattare con lo smartphone. Inizia con il suono di un vero battito cardiaco e conduce in un viaggio attraverso la vita e le sue contraddizioni, fino al gran finale dove razionalità e follia si incontrano e si scontrano in Brain Damage ed Eclipse. Una chiusura ad effetto che è senza dubbio anche richiamo alla drammatica parabola umana dell’amico e compagno di band, Syd Barrett, costretto ad abbandonare il gruppo dopo due dischi per gravi problemi psicologici acuiti dall’abuso di sostanze lisergiche.
Ne avevano incisi sette di album i Pink Floyd prima di iniziare a registrare The Dark Side. Nel passaggio da gruppo visionario e psichedelico a band adulta pronta a incidere il suo capolavoro, fu decisivo l’ingaggio di Alan Parsons, tecnico del suono e musicista raffinatissimo. L’incontro dei quattro con Parsons è il passaggio chiave. Chiusi in studio di registrazione i fabolous five spingono la musica nel nuovo millennio con ventotto anni di anticipo.
Non c’è album venuto dopo o inciso negli ultimi tempi che non debba qualcosa alle tecniche di registrazione del “lato oscuro”. Le dissolvenze tra una canzone e l’altra, l’uso dei loop, all’interno di un brano, ovvero suoni registrati e ripetuti all’infinito, l’accelerazione elettronica di una parte lenta di pianoforte, l’uso creativo dei nastri di registrazione che venivano tagliati e poi incollati per creare un tutt’uno di effetti sonori cambiano per sempre le tecniche utilizzate in sala d’incisione. Ma non è tutto qui: nel mezzo della loro personale missione “lunare” i Pink Floyd optano per un’altra scelta rivoluzionaria, ovvero fare del loro nuovo disco una fantastica scatola magica di suoni, un mix indissolubile tra musica, voci e rumori di fondo catturati nella vita reale.
E allora ecco che nelle canzoni entra il crepitio delle monete agitate in una ciotola, il suono potente e ripetitivo di un registratore di cassa, una sinfonia di ticchettii vari registrati in un negozio di sveglie ed orologi, il fruscio delle banconote e poi le voci di gente comune di tecnici e impiegati degli Abbey Road Studios invitati davanti ad un microfono a rispondere liberamente a domande elaborate da Roger Waters (bassista, voce e principale compositore della band) sui temi della follia e della violenza in tutte le loro accezioni. Tra i tanti si presentarono anche Paul McCartney con la compagna Linda, ma le loro parti alla fine non vennero utilizzate nel missaggio finale. A chiudere il cerchio la copertina più iconica di sempre probabilmente ispirata ad un esperimento del matematico, fisico e filosofo Isaac Newton alla fine del milleseicento. Un fascio bianco di luce che attraversa un prisma e si scompone in sei fasci di luce che rappresentano i colori presenti in natura. Un concept puramente grafico, asettico, lineare, senza presenza umana, che ha stregato il pubblico e i critici. E che nessuno della band ha voluto mai spiegare nel suo reale significato perché è un luogo dell’inconscio come il monolite nero e lucido a forma di parallelepipedo che troneggia in 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. È l’arte che diventa mistero e capacità di stupire senza usare parole, solo la musica. Un approccio che i Pink Floyd fecero loro anche un anno prima di incidere il loro disco più importante scegliendo di esibirsi, nell’era dei giganteschi bagni di folla come Woodstock, Altamont o l’isola di Wight, da soli, al tramonto, nel cuore dell’Anfiteatro romano di Pompei. Il suono del silenzio.