Musica
November 30 2019
In principio fu uno sputo: era il 6 luglio del 1977 quando Roger Waters, il leader principale compositore dei Pink Floyd, ebbe un blackout nel mezzo dello show allo Stadio Olimpico di Montreal. Di fronte agli spettatori delle prime file che rumoreggiavano incuranti della musica, perse le staffe. Era fuori di sé, Waters, e quando notò un fan in procinto di scavalcare le transenne che lo separavano dal palco gli si piazzò davanti e gli sputò platealmente. Fu il punto di non ritorno.
Quel che il bassista e cantante della band inglese non riusciva ad accettare era la dimensione del successo dei Pink Floyd: essere la band più mainstream del mondo voleva dire esibirsi non solo per i fan di stretta osservanza, stregati dalla musica. Waters pretendeva un pubblico attento, consapevole ed educato, un’esigenza incompatibile con le folle oceaniche degli stadi e l’anarchia che caratterizzava i concerti degli anni Settanta.
Così, il pacifista più determinato e convinto (oltre che lunatico) del music business, riversò in quello sputo tutta la sua alienazione: tra lui e il pubblico si era alzato un muro invalicabile, un muro destinato a diventare grande musica, la scintilla per scrivere di getto l’opera rock più famosa di sempre: The Wall. Disegnò i mattoni di una muraglia bianca su un pezzo di carta e iniziò a comporre Mister Waters. Non lo fece in prima persona, ma si inventò un alter ego, tale Pink, una rockstar in stato avanzato di autoreclusione, con seri problemi psicologici, traumatizzata dal successo, dalla morte del padre in guerra (il padre di Waters, tenente dell’esercito inglese, è deceduto in Italia nel 1944 ad Anzio), dal divorzio dalla moglie, dal sesso occasionale e algido con le groupie, da una madre opprimente quanto apprensiva, e persino dal sistema scolastico inglese, antiquato e conservatore.
Non furono i muri costruiti dalla politica, da sempre nel mirino di Waters, la prima fonte di ispirazione del disco, ma le sofferenze personali e le ossessioni di un artista geniale impegnato nella più complessa e irragionevole delle sfide, quella di ingaggiare un braccio di ferro contro il resto del mondo. Solo contro tutti. Persino contro suoi compagni di gruppo con i quali durante la lavorazione del disco litigò furiosamente più volte, fino al punto di licenziare il tastierista (Richard Wright, morto nel settembre del 2008) dalla band, per poi coinvolgerlo nelle canzoni dell’album come un musicista qualsiasi pagato a cottimo. Non funzionava nulla in quegli anni nella vita di Waters (reduce anche dalla separazione con la prima moglie, Judith Trim) e non funzionava nulla nei Pink Floyd che per problemi di management avevano dissipato buona parte degli stratosferici guadagni accumulati nei primi anni Settanta.
A un passo dall’abisso, Waters riversa nella musica il momento più buio della sua esistenza. E così, attraverso la monumentale bellezza e l’intensità di canzoni memorabili come Comfortably Numb, Another brick in the wall o Mother, il muro eretto da Mister Pink Floyd, diventa il muro di milioni di persone che si identificano in quelle parole e in quei suoni. Ecco perché da quarant’anni il disco è nelle classifiche di tutto il mondo ed ecco perché, nella sua ultima rappresentazione in concerto (tra il 2010 e il 2013), The Wall ha richiamato quattro milioni e mezzo di spettatori. Un record senza precedenti.
Non da meno il film ispirato all’album, diretto da Alan Parker e con Bob Gledof nei panni di Pink, ancora oggi un best seller in dvd e blu-ray e nelle sale d’essai, sempre stipate per vedere o rivedere per l’ennesima volta la leggendaria scena in cui Pink, disperato, distrugge sistematicamente una stanza d’albergo in preda alla violenza più cieca, prima di ricomporre sul pavimento, pezzo per per pezzo, tutti gli oggetti che aveva sbriciolato. Fu una rivoluzione musicale ma anche coreografica The Wall. Il muro di mattoni innalzato progressivamente sul palco per rendere invisibile la band al pubblico, la qualità e la quantità degli amplificatori usati per diffondere la musica, il suono degli effetti speciali disseminati lungo le canzoni, i mostruosi cartoni animati, disegnati dal fumettista inglese Gerald Scarfe, proiettati sui maxischermi e il crollo roboante di tutti i mattoni del muro alla fine dello show diedero il via a una nuova era dell’intrattenimento live e inaugurarono un concept inedito, quello del concerto come esperienza multisensoriale.
E così, dopo aver reinventato la musica in studio con l’album capolavoro, The Dark Side Of The Moon, i Pink Floyd riscrissero le regole delle performance in pubblico. Il 21 luglio del 1990, dopo essersi separato traumaticamente dalla band cinque anni prima, al termine di una “sanguinosa” battaglia legale con gli ex colleghi, Waters eseguì The Wall a Berlino, in diretta tv mondiale e davanti a 350 mila persone in Potsdamer Platz, stampando per sempre nell’immaginario collettivo la connessione tra il crollo del muro della Guerra Fredda e il “suo muro”, una storia personale diventata simbolo di liberazione e indipendenza.
Poi, negli anni a venire, come succede per le grandi opere della musica classica, i brani di The Wall hanno attraversato le generazioni, eseguiti in concerto ora da Waters come solista, ora da David Gilmour (il chitarrista, l’altro genio dei Pink Floyd) con la sua personale band, ora dai Pink Floyd stessi, ma senza Waters. Fino al 2 luglio 2005 quando per l’ultima volta i “fantastici quattro” hanno unito le forze per venticinque indimenticabili minuti al Live 8 di Londra. A chiudere la performance, Comfortably Numb, da The Wall, seguita da un abbraccio collettivo sul palco. Il modo migliore per dire al mondo che anche il muro tra di loro era finalmente crollato.