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December 21 2016
Tra le virtù che deve possedere un buon politico c'è quella di misurare il peso delle parole, qualsiasi sia la circostanza in cui viene chiamato a esternare. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, nel goffo tentativo di difendere i 60 milioni di «pistola» che hanno scelto di rimanere in Italia, ha dimostrato di non possedere quella virtù.
Ha dato fiato ai suoi avversari di Sinistra italiana, del M5S, della Lega che oggi hanno presentato una mozione di sfiducia nei suoi confronti parlando a ragion veduta di un «linguaggio inaccettabile» e soprattutto ha offeso, parlando a Fano dei 100 mila cervelli in fuga dal nostro Paese, decine di migliaia di nostri concittadini che, andandosene, hanno fatto una scelta umanamente dolorosa e insieme coraggiosa, come ben sa chi ha deciso di fare le valige in cerca di fortuna, affrontando sacrifici e difficoltà esistenziali che sarebbe bene non banalizzare.
Sia chiaro: è persino scontato che vi possano essere, tra coloro che se se ne sono andati, anche persone che, per dirla con Poletti, «non soffriremo a non avere più tra i piedi». Il fatto è che una battuta generica e gratuita come quella che ha fatto il ministro ben si attaglia a un bar del Giambellino di Giorgio Gaber dove le parole viaggiano in libertà e non ci sono censori in agguato, un po' meno a un appuntamento istituzionale dedicato a una questione seria come quella dell'emigrazione italiana - spesso specializzata - verso gli altri Paesi.
Le scuse postume del ministro, sulla sua pagina facebook, attenuano certamente il virus della polemica e delle responsabilità, chiarendo che l'intenzione di Poletti era quella di contestare la tesi a che ad andarsene debbano essere per forza i «migliori di noi», non quella di offendere gli italiani che vivono e lavorano all'estero.
Rimane però la sensazione di una classe politica che, per arroganza o faciloneria, non ha ancora compreso - a dieci anni dalla infelice battuta di Tommaso Padoa Schioppa sui «bamboccioni» o sulle «tasse bellissime» - che la politica non è strappare una risata in un convegno, non è offendere indirettamente una parte dei tuoi connazionali-elettori, non è fare dichiarazioni tanto generiche quanto inutili che suscitano soltanto polemiche di cui non sentivamo il bisogno.
Fare politica significa assumersi le proprie responsabilità, nella consapevolezza che - nonostante la vuota e dominante retorica sull'uno che vale uno - quello che è concesso al bar del Giambellino non può essere concesso al ministro del Lavoro, tanto più in un Paese dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40% e l'utilizzo smodato dei voucher da parte degli imprenditori rischia di diventare la copertura legale del destino di precarietà esistenziale cui sono condannati decine di migliaia di giovani.
Tra le risposte, piovute sul ministro Poletti dopo la sua improvvida esternazione, ce n'è una che merita di essere citata, ed è stata pubblicata suPiovono Rane, il blog di Alessandro Giglioli. A scrivere una lettera aperta al ministro è Marta Fana, ricercatrice di economia emigrata in Francia, non ascrivibile - immaginiamo - alla schiera degli italiani senza arte né parte che è bene «non avere più tra i piedi».
Gran parte delle domande che pone la giovane ricercatrice sono le domande (che toccano il nostro presente e il futuro) alle quali dovrebbe rispondere un ministro del Lavoro, comunque si chiami. Magari, senza perdere tempo in dichiarazioni che sarebbero accettabili nella bocca di un Gino Cerruti, non in quella di un ministro della Repubblica.