Le nostre colpe sulla gestione dell'energia

Tra i vari aspetti che la guerra in Ucraina ha evidenziato nella vecchia Europa, la dipendenza e il ricatto energetico rappresentano un nervo scoperto da tempo su cui non si è voluto mai fare i conti fino in fondo. Invece di aumentare la produzione di gas nazionale e pianificare investimenti sulle rinnovabili e diversificazioni delle forniture ci si è cullati per decenni in una situazione di temporanea permanenza. Così oggi ci troviamo ad importare il 77% dell’importazione energetica (e una quota significativa proprio dalla Russia) posizionandoci in Europa tra i Paesi con maggior dipendenza energetica dall’estero non potendo contare sul nucleare a cui altri fanno ricorso. Come prevedibile, in tale situazione e senza una vera programmazione, ci ritroviamo come canne al vento delle crisi internazionali e, come un domino, il problema energetico si abbatte con velocità su innumerevoli aspetti della vita civile. Il primo comparto a farne le spese è quello dei trasporti. Ne abbiamo parlato con il Vice Ministro ai Trasporti Alessandro Morelli.

Possiamo dire che stiamo entrando in un’economia di guerra?

«Direi di no, piuttosto è la guerra ad essere entrata nella nostra economia, peraltro ben prima dello scoppio delle ostilità tra Mosca e Kiev. Mi riferisco al periodo pandemico e ai danni che ha provocato al tessuto economico e sociale del nostro Paese. L’emergenza sanitaria ha portato alla luce le fragilità croniche del modello di sviluppo italiano, la crisi internazionale le ha solo accentuate e, per taluni aspetti, ne ha evidenziate delle altre, come appunto quella della dipendenza da altri sistemi produttivi anche per beni essenziali come l’energia».

Cosa pensa del taglio delle accise? Basterà?

«Penso che sia servito a dare ossigeno a famiglie e imprese, riportando il prezzo dei carburanti sotto la soglia critica dei due euro al litro. È un primo segnale, al quale seguiranno a stretto giro ulteriori misure individuate a livello europeo. È a Bruxelles che si gioca la partita principale: acquisti comuni, condivisione degli stock energetici e un tetto massimo al prezzo del metano sono le misure allo studio. Proprio sul “price cap” si fatica a trovare un accordo a livello unionale. L’auspicio è che si riesca a individuare un punto di caduta accettabile per tutti i Paesi membri, così da contenere i costi dell’energia e neutralizzare gli effetti negativi che questi riverberano sul trend di crescita registrato prima della crisi».

Diminuiranno i consumi con l’estate. Può aiutare?

«Sicuramente diminuiranno quelli del gasolio e del gas per riscaldamento, ma non è detto che il dato dei consumi energetici si riduca in valori assoluti. Penso ad esempio all’uso massiccio dei climatizzatori in estate e all’auspicata ripresa delle attività economiche con la bella stagione. Quello che invece potrebbe aiutare è la condotta individuale: ciascuno di noi può fare la sua parte per ridurre sprechi. Gli studi dicono che una maggiore attenzione ai consumi può incidere almeno del 10% sul costo delle singole bollette».

Come procedono i tentativi di trovare autonomia energetica?

«Per ora siamo ci stiamo movendo sull’onda dell’emergenza. Nel breve periodo l’obiettivo è assicurare la continuità degli approvvigionamenti, il che non implicherà una totale autonomia energetica, quanto piuttosto una minore dipendenza dalle forniture russe. Utile allo scopo sarà aumentare i rifornimenti dai gasdotti azeri, algerini e libici, e l’acquisto di gas liquido dagli Stati Uniti. Una soluzione, quest’ultima, che richiede un notevole sforzo logistico, economico e infrastrutturale. Il gas liquido, infatti, non deve solo essere trasportato su navi ad hoc, ma anche trattato nei rigassificatori e l’Italia al momento ne ha soltanto tre a causa dei "signor No". Nel medio periodo invece puntiamo a raddoppiare l’estrazione di gas naturale dai nostri giacimenti, portandola dagli attuali 3,5 a circa 8 miliardi di metri cubi. Guardando ancora oltre raccoglieremo i frutti degli investimenti avviati con il Pnrr, quindi rinnovabili, idrogeno e biometano, portando a termine quel percorso rimasto incompiuto in seguito alla dismissione del nucleare».

Quindi si comincerà a trivellare dove oggi ci sono blocchi?

«No, se si riferisce alle aree soggette a vincolo ai sensi della normativa vigente. Si comincerà piuttosto ad efficientare i pozzi già operativi. Un’operazione semplice, che da sola ci potrebbe garantire 4 miliardi di metri cubi di gas in più. E non solo: con l’approvazione del piano delle aree idonee (Pitesai) è ora possibile prevedere pozzi aggiuntivi per le concessioni di coltivazione già attive, evadere le richieste di estrazione ancora pendenti a partire da quelle presentate dal 2010 in poi, e valutare nuove attività di prospezione e ricerca. Tutto ciò richiede tempi tecnici variabili in base all’attività da effettuare, e perciò una semplificazione delle procedure non guasterebbe...»

Si è pensato di rivedere il piano trasporti via ferroviaria per abbattere il costo su ruote?

«Il trasporto di merci su ferro è quello meno impattante dal punto di vista ambientale, e le misure di incentivo adottate dal Governo verso questo sistema di trasporto e verso il trasporto intermodale ne sono la conferma. Un dato su tutti: 24,77 miliardi di euro stanziati dal Pnrr per la nostra rete ferroviaria. Con l’ultimo decreto, il cosiddetto “Ucraina bis”, si è deciso di investire ancora sulla “cura del ferro” con 19,5 milioni di euro per il rinnovo del Ferrobonus, l’incentivo che favorisce lo shift intermodale verso il trasporto su rotaia da parte delle imprese».

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