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March 23 2018
La democrazia è una chiesa, ma vuota di fedeli. L’espressione fortunata è di Michele Ainis e coglie perfettamente nel segno la crisi dell’unico sistema di governo basato sulla rappresentanza effettiva (diretta o indiretta non conta) del popolo.
L’Europa, di questa crisi, rappresenta l’avamposto, per una serie di ragioni storiche rese evidenti, oggi, dalla sintesi geografica. Il mappamondo ci permette infatti di cogliere, in un solo sguardo, come il Vecchio Continente sia assediato da forme di governo ibride, mutevoli e in ogni caso lontane dal concetto di democrazia compiuta che corrisponde ai crismi del diritto internazionale e al retaggio culturale d’ascendenza greco-classica.
Il paradosso dell’Europa è tutto in una contraddizione: essere riuscita a dotarsi della miglior forma di democrazia (rappresentatività, bilanciamento e indipendenza dei poteri, alternanza di governi), ma aver perso il contatto con il principale partito: quello appunto dei non elettori.
La disaffezione al voto è il sintomo di un malessere reso ancor più acuto dall’onda plebiscitaria che investe la Russia di Putin, la Turchia di Erdoğan (anche se tra alti e bassi) e che innalza il Presidente cinese Xi Jinping allo status d’Imperatore a vita. Ma l’Europa si trova anche a dover fare i conti con forze centrifughe, come il gruppo di Visegrád (cioè Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), Paesi ai quali la democrazia è servita da grimaldello per chiudere il capitolo del socialismo reale e del partito unico, ma ora si sta rivelando un sistema troppo garantista, lontano dalle pulsioni immediate dei territori nazionali alle prese con complesse sfide economiche e migratorie.
Nell’immaginario di questi Stati, dove assai scarsa è stata l’elaborazione storica dei drammi del Novecento che li hanno visti coinvolti, la tecnocratica Bruxelles si è sostituita alla monocratica Mosca del Patto di Varsavia; da qui le spinte sovraniste che scuotono l’integrazione europea e ne mettono a rischio il futuro.
Non vanno meglio le cose sulla sponda sud del Mediterraneo. Solo la Tunisia ha compiuto un passo in avanti rispetto al fermento delle Primavere Arabe, grazie ad una costituzione molto éclairée, ma se guardiamo alla Libia (disastro della diplomazia occidentale se non specificamente europea: targato Francia, UK e Italia pilatesca), all’Algeria, al Marocco per non parlare del Sahel a sud o del regime egiziano a est, capiamo che i governi manu militari dettano ancora la rotta.
Un ultimo fronte critico è poi rappresentato dal Regno Unito, dove Brexit è un processo inevitabile e farà discutere, un giorno, storici e politologi sull’efficacia della democrazia diretta, in questo caso referendaria, all’epoca della propaganda social; può un voto cruciale essere lasciato al potere dalla wi-fi? Ma intanto, a Bruxelles, questa preoccupazione arriva? E’ lecito dubitarne, dal momento che l’inquietudine non arriva nemmeno nelle capitali: a Roma, a Parigi, a Lisbona le elezioni europee servono da termometro per gestire i rapporti di forza interni o per consolare, con un seggio europeo (meglio sarebbe dire due, contando il parlamento gemello di Strasburgo…), chi abbia patito una delusione nella tornata nazionale restando senza poltrona.
E’ forse questa la peggior ipocrisia delle principali democrazie europee e dei loro partiti, e cioè da una parte avere la consapevolezza di come l’Unione Europea abbia ormai avocato a sé parte consistente del potere nazionale (basti pensare al budget, nessuna legge di bilancio nazionale può essere più approvata senza il benestare della Commissione UE), ma dall’altra promuovere un’evidente selezione al ribasso della classe dirigente da posteggiare al Parlamento europeo.
Fino a quando i campioni della politica (e campioni fino a che punto si vedrà…) rimarranno entro i confini dei parlamenti nazionali, avremo poca sostanza europea, nonostante l’entusiasmo di Emmanuel Macron e l’immarcescibile presenza di Angela Merkel.
La globalizzazione ha reso il gioco delle parti più crudo, erodendo lo spazio della convivenza tra Stati. Due esempi: la morte della diplomazia nella guerra siriana (anche qui gli storici ci diranno, un giorno, cose interessanti), e la decadenza delle forme diplomatiche nel caso Skripal, con una Londra quasi irriconoscibile.
Perché la Chiesa della Democrazia, che sulla carta conta miliardi di fedeli, torni ad essere gremita occorre la concomitanza di molti fattori. Se bastasse il solo buon senso sarebbe Natale tutto l’anno. Invece bisogna fare i conti con la realtà, cioè l’architettura dei mercati finanziari e dell’economia globalizzata, un combinato disposto che al momento è in grado di governare la politica, dandole la forma più funzionale ai propri interessi.
L’esperimento cinese, un turbo capitalismo mercantilista mixato col verticismo comunista, restituisce il massimo del pragmatismo possibile. L’offensiva è talmente massiccia che anche l’impero democratico per eccellenza, gli Stati Uniti, ora traballano. Se a Washington la staffetta è stata tra un presidente col profilo di Obama e un presidente col profilo Trump, vuol dire che il colpo di Pechino si è fatto sentire. Ecco perché è sterile discutere sulla recente telefonata di congratulazioni di Trump a Putin, se un’identica telefonata la fece Obama nel 2012 senza suscitare alcuna polemica.
Certo, la democrazia dovrebbe funzionare all’opposto dell’opportunismo: essere il vaso trasparente che dà forma al corso d’acqua impetuoso della globalizzazione, governandola per il bene pubblico, per la res publica.
La flessibilità quindi - delle forme, dei processi decisionali, del riformismo – invece di un vago buon senso potrebbe essere la risposta decisiva, affiancata però dalla selezione di una classe dirigente di caratura europea, per capacità specifiche e per visione.
In caso contrario, la democrazia senza democratici, cioè i fedeli della lucida suggestione iniziale, rischia di perdere la sua linfa e quindi di soccombere alle sirene dei tanti uomini forti che si identificano con un sovranismo seducente ma miope, e molto facile da scimmiottare.