December 14 2016
Poveri ma ricchi: un De Sica da 100 milioni – La recensione
Claudio Trionfera
L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach? No, di Torresecca, borgo laziale sulla Prenestina. Niente Volker Schlöndorff ma Fausto Brizzi, che al suo decimo film, Poveri ma ricchi (in sala dal 15 dicembre), celebra contestualmente dieci anni di regia inaugurati nel 2006 con Notte prima degli esami e già parzialmente festeggiati lo scorso marzo con Forever Young.
Succede così che la famiglia Tucci, capeggiata da Danilo (Christian De Sica) e navigante tra gli stenti con l’unico svago rappresentato dall’incessante, quasi perverso consumo di supplì, vinca una lotteria televisiva da cento milioni di euro. E che, per sfuggire all’inevitabile sterminata questua dei compaesani, prima tenga nascosto il colpo di fortuna poi, non più in grado di mascherarlo – e un po’ consumata dalla voglia di goderselo – scappi il più lontano possibile a costruirsi una vita agiata. Dove? A Milano. Con valigie e tutto in viaggio migrante a bordo di un vecchio pullmino Volkswagen stile Woodstock.
Attico e hotel di lusso
La famiglia, dunque. Colorata e rumorosa. Attorno a Danilo ci sono sua moglie Loredana (Lucia Ocone), suo cognato Marcello (Enrico Brignano), Nonna Nicoletta (Anna Mazzamauro), i figli Tamara (Federica Lucaferri) e Kevin (Giulio Bartolomei), quest’ultimo eletto narratore della vicenda, in campo e fuori, voce dell’innocenza e della cólta scaltrezza nella ruspante e spesso greve comunità dei Tucci. La quale, una volta arrivata a Milano, divide la sua vita spendacciona tra la suite di un albergo lussuoso e un attico principesco, ciascun componente a modo suo, si capisce, ma tutti con la vocazione al comfort e allo sfizio più sfrenato e pacchiano (“affittano” a lungo termine perfino Al Bano per farsi cantare Felicità) nel cuore di una noblesse milanese incline a storcere il naso davanti a tanta cafonaggine.
Ecco il lato sentimentale
Tutti salvo Marcello, costretto a fingersi “povero” per amore della graziosa Valentina (Lodovica Comello), hostess nell’albergo milanese dove lui dimora ma dove, appunto per non mostrarsi ospite davanti a lei che odia i ricchi, diventa lavapiatti. È il côté sentimentale di una storia dall’inevitabile parabola morale, che alla repentina inopinata prosperità delle persone umili e impreparate all’evento ne associa i risvolti meno felici e più rovinosi. Anche se a metterci, come si dice, lo zampino nel finale agrodolce è proprio quel ragazzino narratore, adolescente con la maturità di un vecchio saggio: a raccontare che i soldi non faranno, magari, la felicità ma se ci sono è pure meglio.
Tra risate e citazioni
Brizzi, rielaborando in cifra di remake un film francese del 2010 (Les Touche di Olivier Baroux, sconosciuto da noi ma fortunato in patria, poi replicato con un numero 2 nel 2015) e adeguandolo alle proprie urgenze geografiche ed etniche, si sottrae giustamente ai modelli e alle tentazioni della commedia per affidarsi tout court al genere comico, anche se poi, qua e là, si affacciano con citazioni non proprio casuali umori e sapori del buon cinema italiano anni Cinquanta.
Un protagonista “leonino”
Ma il tocco, come spesso accade con questo autore, è sempre molto personale e tende a sfuggire a qualsiasi classificazione. Qua con risultato ameno e in molti passaggi esilaranti per dialoghi, situazioni, scelte di tempi narrativi stretti e incalzanti. Per una comicità spavalda e sonora, a tratti surreale, mai gratuita, con echi di cartoon e strip. Dove gli attori, naturalmente, s’impossessano della scena determinandone gli esiti migliori in una recitazione di felicissima coralità: a partire da Christian De Sica, rosso-leonino nell’aspetto insolito (stesso trucco di Jean-Paul Rouve protagonista del film francese), sempre più remoto e separato rispetto ai personaggi d’una volta e sempre più prossimo ad esprimersi in una forma di scintillante nuova vita espressiva. Molto rallegra il Brignano innamorato nella sua doppia parte di sguattero e milionario; deliziosamente salace, sguaiata e rustica Carla Mazzamauro.
Marginale ma assai pregevole il transito da comparse di Giobbe Covatta nei panni d’un sacerdote, di Gian Marco Tognazzi in quelli d’un manager di Formula 1, di Gabriel Garko che con ironia interpreta se stesso e ovviamente di Al Bano il quale, salito in questi giorni alle cronache ospedaliere, diventa egli stesso, gioiosamente, “colonna sonora” del film.
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