Calcio
February 16 2022
La Superlega esiste già e solo i ciechi non la vedono. Gli altri, quelli che hanno assistito alla passeggiata del Manchester City in casa dello Sporting Lisbona, sulla carta una grande del Portogallo, sanno da tempo che tra il calcio inglese e il resto dell'Europa si è scavato un solco difficile da colmare in tempi ragionevoli. La novità è che, usciti dalla tempesta del Covid, quel baratro si sta ampliando invece che ridursi, come se la pandemia avesse funzionato da livella ovunque tranne che nel calcio di Sua Maestà.
La notizia era nell'aria, ma leggerla fa comunque impressione. Con gli ultimi accordi in India e Asia, mercati potenzialmente immensi per il football, la Premier League è diventata il primo campionato della storia a incassare di più dalla commercializzazione internazionale dei propri diritti tv rispetto a quanto accade per quelli domestici. Tradotto in soldoni, significa che nel triennio dal 2022 al 2025 i club inglesi incasseranno 6,31 miliardi di euro dai contratti in giro per il mondo contro i 6,07 garantiti in patria dagli accordi con Sky Sports, BT Sport e Amazon Prime. In tutto quasi 12,4 miliardi di euro in tre anni che renderanno le società della Premier League ancora più forti, ricche e competitive in un mercato che ha visto invece contrarsi il proprio valore anche per effetto della pandemia.
I benefici saranno evidenti e immediati. In un calcio in cui le proprietà sono costrette a immettere fondi per ripianare perdite miliardarie, con un'onda lunga della crisi che non si esaurirà prima del 2023, a Londra e dintorni potranno continuare a vivere in un regime di vacche grasse. La squadra vincitrice del campionato incasserà, in soli diritti tv, 210 milioni di euro ma a segnare in modo plastico la distanza con il resto del mondo sono i 126 garantiti all'ultima del lotto. Più di quanto possono mettere a bilancio le trionfatrici di Serie A, Liga, Bundesliga e Ligue1 al netto della differenza nei metodi di distribuzione dei ricavi.
Questa la fotografia che rende anche evidente il motivo per cui, dopo essere entrati, i club inglesi non ci abbiano pensato più di tanto ad uscire dalla Superlega. Le pressioni del Governo e dei tifosi hanno avuto un ruolo, ma in fondo a Manchester, Londra, Liverpool e dintorni la Superlega esiste già e la posizione di forza è talmente evidente che permette di sedersi con argomenti invidiabili anche al tavolo della Champions League che dal 2024, con la nuova formula varata dalla Uefa e dall'ECA, arriverà a fatturare 5 miliardi di euro a stagione.
Tutte le altre sono destinate ad arrancare e in questo panorama la Serie A rischia davvero di fare la fine del vaso di coccio. Le società di casa nostra stanno tirando la cinghia per cercare di non saltare per aria, hanno in larga parte fatto debiti o anticipato futuri incassi per saldare i quasi 600 milioni di euro di arretrati Irpef e Inps per il 2021 (proroghe scadute a metà febbraio) e aspettano con ansia ristori dal Governo che difficilmente arriveranno. Anche perché a livello politico il nostro campionato non è mai stato così debole: senza presidente (sarà il numero uno di Confindustria Bonomi?), in lite con la FIGC per questioni di statuti e attaccato quotidianamente da chi nell'esecutivo chiede riforme.
Si avanti col passo del gambero mentre gli altri volano. E anche dove c'è la volontà di investire, come a Milano, le difficoltà sono moltiplicate dal solito schema italiano dei veti incrociati, della burocrazia e della sponda offerta alle istanze di chiunque, fosse anche rappresentante solo di un manipolo di residenti contrari alla realizzazione di un nuovo stadio. Anche per questo la FIGC ha scelto di spostare al 2032 la candidatura per l'Europeo che doveva essere per il 2028: la discesa in campo dei soliti inglesi avrebbe reso un suicidio il tentativo per una data nella quale, a occhio, difficilmente il sistema avrebbe permesso di presentarsi con strutture adeguate nel dossier. La scommessa è che i quattro anni servano per smuovere progetti e coscienze.