Grande guerra, memoria corta

Fu il peggior massacro nella storia, con 8 milioni di morti, la Grande guerra, la cui data d’inizio cadeva nel luglio di 100 anni fa. In pochi la volevano, ma nessuno riuscì a impedirla, non i socialisti europei con uno «scioperissimo» che fallì (in Italia a salvare capra e cavoli intervenne Costantino Lazzari con la formula: «Né aderire né sabotare», come a dire che si è contro la guerra, ma si va al fronte e ci si batte per quanto possibile al meglio, e fu anche il caso di Sandro Pertini).

Oggi conviene ricordare alcune ombre.
Le sentenze di morte dei tribunali militari (quasi 3 mila da noi) e le decimazioni dei reparti sul campo (un soldato ogni 10 giudicato colpevole a caso e fucilato) furono largamente utilizzate per dare voglia di battersi all’esercito.

A quel tempo la truppa non aveva il diritto di dire la sua, nemmeno quando una tattica di guerra, la contrapposizione frontale fra trincee, poteva apparire suicida. Metodi repressivi di cui non si parlava pubblicamente con l’eccezione del comandante della 3ª Armata, il duca Emanuele Filiberto d’Aosta, che ordinò la decimazione per proclama contro quei soldati che si fossero dimostrati «vili di fronte al nemico».

Emanuele Filiberto era stato fino alla nascita di Umberto il candidato alla successione di Vittorio Emanuele III; aveva sposato una d’Orleans ricchissima, ma priva di curve femminili (nel giudizio acido della regina Margherita: «Magari diventerà una bella donna!»); il comando di un’armata gli era stato dato quale ricompensa di altre occasioni mancate e in prima linea non c’era mai andato, mai aveva conosciuto quella corsa affannosa verso il nemico tra le raffiche di mitragliatrice, l’esplodere delle bombe a mano e i morti che cadevano a grappoli.

Furono 150 mila i disertori italiani, specie dopo Caporetto.

Non ci fu comunque l’ammutinamento di massa delle truppe francesi che motivò la sostituzione tra il generale Robert Nivelle e Philippe Petain. Ma non mancarono episodi eclatanti, come nel 1917 quello della brigata Catanzaro, considerata il fiore all’occhiello dell’esercito italiano: ritirata dal Carso, dove si era dissanguata, all’ordine di tornare al fronte per turare una falla si ammutinò, fra l’altro dando l’assalto al campo d’aviazione di Gabriele D’Annunzio. Negli scontri morirono tre ufficiali e quattro carabinieri, e ci volle l’artiglieria per domare la rivolta (28 soldati subirono la decimazione).

In Francia si chiede oggi la riabilitazione dei «fucilati per l’esempio».

E in Italia? Non sarebbe male, oltre alle piazze dedicate al duca d’Aosta e ad altri come lui, intitolarne qualcuna ai martiri della brigata Catanzaro, uomini del Sud, vittime di quella guerra.

Rafaello Uboldi è storico e saggista

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