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April 04 2017
Al netto delle inevitabili polemiche sul calo del numero degli iscritti, sull'affluenza che ha superato di poco la metà degli aventi diritto (anche se in alcuni casi è stata invece molto alta, fino al 72%, come a Roma), il primo round delle primarie Pd aperte solo ai tesserati ha ampiamente riaffermato la supremazia della leadership di Matteo Renzi.
L'ex segretario ha incassato il 68,22% delle preferenze contro il 25,42 di Andrea Orlando e il 6,36% di Michele Emiliano che per un soffio non si è ritrovato escluso dalla gara che si concluderà il 30 aprile con le primarie aperte. La sua mozione si è imposta ovunque, anche dove non era affatto scontato che accadesse: zone rosse, circoli operai, nella zona dell'Ilva di Taranto, a Bologna e soprattutto a Roma dove nel 2013 gli iscritti gli avevano preferito Gianni Cuperlo (55% contro il 31,5%).
Le due letture del risultato
Per i suoi sostenitori il risultato della consultazione tra gli iscritti smentisce la teoria dei suoi avversari interni, compresi quelli che hanno lasciato il Pd, sul presunto scollamento tra la vertice e base del partito. Secondo gli altri invece il successo di oggi confermerebbe la trasformazione del Pd in PdR, ossia nel partito di Renzi. I “veri” militanti dem avrebbero, in base a questa lettura, lasciato la “Ditta” seguendo gli scissionisti e non rinnovando la tessera. Oppure, semplicemente, non andando a votare
C'è una parte di verità in entrambe queste posizioni. Da una parte va infatti riconosciuto che chi oggi milita nel Partito democratico individua in Matteo Renzi il proprio leader e l'unico in grado di proseguire sulla strada del cambiamento e di opporsi all'avanzata dei populismi in Italia. Secondo molti iscritti con un Andrea Orlando segretario e candidato premier, il Pd rischierebbe infatti di soccombere al Movimento 5 Stelle ma anche a un centrodestra riunito.
Dall'altra è indiscutibile che una parte della base abbia da sempre subito la sua leadership e non ci si sia mai riconosciuta. L'attacco sferrato da Renzi, fin dai suoi primi giorni alla guida del Pd, contro tutti i corpi intermedi tradizionalmente legati alla sinistra a cominciare dai sindacati, è stato percepito come un'intollerabile negazione di quei valori ai quali da sempre si era richiamata la sinistra in Italia. Altrettanto ha creato forte disagio l'indole accentratrice nella gestione del potere politico e mediatico che Renzi ha pesantemente pagato in occasione del referendum costituzionale.
Il ruolo dei vecchi compagni
E tuttavia è un dato che oggi in prima linea nella difesa e nel sostegno a Renzi ci siano soprattutto i portabandiera di quella tradizione rossa, ossia i vecchi iscritti al Pci, di cui D'Alema, Bersani&co pensano di essere gli unici legittimi eredi e portavoce. Sono loro, invece, a essersi sempre schierati contro la delegittimazione del segretario legittimamente eletto nel 2013, che hanno contestato con maggior forza la scelta di parte della minoranza di lasciare il partito e che in questi giorni di congresso si sono presentati in massa presso i circoli Pd per rinnovare a Renzi la loro fiducia.
Renzi primo leader nativo del Pd
Acquisito questo risultato interno, da oggi la gara si sposta in mare aperto. Il 30 aprile, come stabilisce lo Statuto dem, anche elettori e simpatizzanti potranno decidere chi sarà segretario per i prossimi quattro anni e automaticamente anche il candidato premier alle prossime elezioni. Renzi ha le maggiori chance di vittoria perché a differenza dei suoi predecessori, pur avendo egli militato nella Margherita, è il primo leader “nativo” del Pd. E se il risultato del voto nei circoli dimostra che i primi a non percepirlo come un corpo estraneo rispetto al loro mondo, ai loro valori, alle loro idee, sono proprio gli ex compagni, è quasi scontato che in un corpo elettorale più ampio la sua candidatura risulterà essere quella più accreditata a ottenere un'ampia vittoria.
La svolta del 4 dicembre
Dopo la fuoriuscita della minoranza e se la leadership di Matteo Renzi sarà riconfermata il prossimo 30 aprile, la dicotomia che accompagnava il Pd fin dalla sua nascita nel 2007 tra chi veniva dai Ds e chi dalla Margherita, potrà dirsi definitivamente superata. In questo processo c'è stata una data che ha segnato tuttavia il vero spartiacque tra il prima e il dopo ed è quella del 4 dicembre del 2016. Matteo Renzi ha rovinosamente perso il referendum ma ha trovato un popolo, il popolo del Sì.
Se è vero che gran parte di quel 60% di italiani che hanno bocciato la riforma costituzionale targata Renzi hanno, con il loro voto, bocciato anche Renzi, altrettanto vero è che gran parte di quel 40% che invece ha promosso quella riforma, 13 milioni di persone di cui la maggioranza sono elettori del Pd, lo ha fatto anche per promuovere Renzi e il 30 aprile, almeno per quanto riguarda elettori e simpatizzanti dem, questa fiducia gli sarà riconfermata.
Le incognite giovani e affluenza
All'appello finale rischiano tuttavia di mancare i giovani. Già il 4 dicembre il “no” si affermò largamente nella fascia dei 18-25enni. Matteo Renzi non è ancora riuscito a trovare il modo di intercettarli. Le uniche incognite in vista delle primarie Pd di fine mesi riguardano infatti il consenso da parte di questo target e, più in generale, il dato sull'affluenza al voto che, se troppo bassa, rischia di azzoppare la scontata vittoria dell'ex segretario.