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March 20 2017
Diciamolo chiaramente: senza primarie Renzi non sarebbe mai diventato premier.
Senza primarie non avrebbe nemmeno scalato il partito democratico, partendo giovanissimo dalla provincia di Firenze e arrivando in meno di dieci anni a rottamare la vecchia guardia ex comunista del Pd, abbattendo cioé come birilli tutti i suoi competitor interni, da Lapo Pistelli, lo sfidante del 2008 nella corsa verso Palazzo Vecchio, fino all'ex segretario ed ex ministro Pierluigi Bersani nel 2014.
Possiamo dire, senza timore di smentite, che Renzi è l'uomo delle primarie.
Il fatto è che questa volta, a differenza del 2009 (quando sbaragliò i suoi avversari nella corsa verso la candidatura a sindaco), del 2013 (quando fu sconfitto 60 a 40 dall'ex segretario Bersani), e anche del 2014 (quando raccolse la guida di un partito uscito devastato dal voto sulla presidenza della Repubblica), Renzi dovrà imparare a cambiare campo di gioco.
Non è più lui l'inseguitore, l'outsider, il rottamatore, il leader giovane e dinamico capace di lasciarsi alle spalle gli ideologismi e giocare in contropiede. Questa volta è lui la lepre, il campione, con due sfidanti - come Michele Emiliano e Andrea Orlando - che almeno in teoria potrebbero sfruttare l'effetto sorpresa contro i big del partito, come lui stesso seppe fare nelle primarie precedenti.
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La carta della rottamazione, giocata con astuzia fino a qualche anno fa, è ormai diventata per l'ex premier inservibile. I ruoli si sono ribaltati.
Gli ultimi sondaggi nela base del partito lascerebbero pensare che, per Renzi, sarà una corsa in discesa, con Emiliano e Orlando destinati a raccogliere ciascuno appena il 20% delle preferenze. L'uscita dal Pd della vecchia guardia dei D'Alema e dei Bersani dovrebbe rendere più semplice la sua consacrazione a segretario, preludio alla candidatura a premier, all'insegna di quella sovrapposizione tra capo di partito e candidato alla presidenza del Consiglio che è ritenuta dai suoi avversari interni come uno dei punti dolenti della sua leadership.
La parola d'ordine delle primarie aperte, usata con astuzia da Renzi nel 2013 e nel 2014 per convincere un pezzo dell'elettorato ex berlusconiano a votare per lui nella sua battaglia contro la vecchia guardia, è stata fatta propria ora dai suoi avversari, specie da Michele Emiliano, desideroso di sfondare tra l'elettorato grillino. Sono gli altri due sfidanti che in teoria, questa volta, possono trarre vantaggio da un'alta partecipazione al voto tra gli elettori non Pd.
In qualche modo, è cambiato tutto nel centrosinistra italiano: non solo perché i vecchi, uno dopo l'altro, se ne stanno andando dal Pd, ma perché Renzi non ha in mano più la carta del nuovismo, sia alle primarie che alle prossime elezioni. È lui, questa volta, per un pezzo dell'elettorato, il campione da detronizzare. Per Renzi si sta aprendo una nuova stagione che non potrà più affrontare con la furia rottamatrice e la freschezza degli esordi. Il rischio semmai, per lui, è la palude. È finire bruciato a fuoco lento, con lo strumento delle primarie sempre meno utile a fini consacratori, sempre più inservibile e impopolare: i tempi delle primarie oceaniche, con due o tre milioni di partecipanti, sono probabiolmente finiti.
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Rimane da capire, essendo destinato a vincere, se Renzi sarà in grado di dismettere definitivamente l'abito del rottamatore e indossare quelli del leader di partito capace di tenere unito un partito con milioni di elettori, decine di migliaia di amministratori e qualche centinaio di migliaio di iscritti: la scommessa, per Renzi, è quella non già di vincere, questa volta, né di rottamare chicchessia, ma dopo aver vinto quella di ricostruire il senso di una comunità politica devastata da una battaglia intestina che si è protratta troppo a lungo. È questa la sfida che lo attende, a cominciare dalle prossime primarie.