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Con quel "passo" abbiamo perso la Luna

Sul piano letterario la conquista della Luna fu una perdita. Il 20 luglio del 1969 la luna passò da Leopardi a Marinetti. Quel grande passo avanti dell’umanità fu un balzo indietro per la poesia. La lirica cedette il passo alla tecnica, la contemplazione alla velocità. D’un colpo svaniva la luna degli innamorati, dei poeti e dei licantropi, la luna sacra, l’orologio astrale dei pellerossa, la pallida luna d’argento delle canzoni languide. Calpestata, profanata dagli scarponi americani. Aveva vinto Marinetti contro il chiaro di luna. Futurismo batte Passatismo. Versi tecnologici beffarono liriche accorate, suoni sordi degli spazi fugarono il plenilunio di Beethoven. Dino Buzzati tre giorni prima dello sbarco supplicò invano la luna di fuggire dagli astronauti, di ribellarsi alla conquista e mettere in salvo l’universo spirituale.

Il 20 luglio del ’69 il cosmo venne direttamente a casa nostra, seppure in bianco e nero. La magia si fece visione notturna, incantesimo di massa, spettacolo globale. Era una notte calda e memorabile e due uomini con la testa nel pallone di vetro passeggiarono per noi sulla luna, piantarono bandiere, mandarono messaggi extraterrestri. Eravamo con gli occhi sgranati e incollati al video per il collegamento diretto col futuro. Per la prima volta l’utopia toccava il suolo, la lontananza si faceva prossimità, la navicella planava sul mito. La notte dei miracoli, lo spazio che si fa struscio per la passeggiata lunare, Selene resa nota nelle sue parti intime entra nel tinello di casa e si mostra per quel che è, nuda e rocciosa, con foruncoli grandi come crateri. L’incanto di una notte d’adolescente vissuta eccezionalmente da sveglio per sognare a occhi aperti. Il brivido della creazione. Quella miracolosa discesa sulla luna, quella storia in diretta planetaria, quel sentirsi umanità e non singole persone, quell’appuntamento cosmico con Dio e la sua assenza. Ricordo gli occhi sgranati di Tito Stagno che conduceva in studio, dietro quelle strane lenti che ne ingrandivano lo stupore. E i commenti su scienza, fede e umanità di Enrico Medi, affabulatore mistico e scientifico che trasformava i pianeti in parrocchie e gli astri in santini ma suscitava amore per la scienza e il creato, come una versione devota di Piero Angela. Fu il primo narratore astrofisico; poi col tempo vennero i Rovelli e i Tonelli.

Sorsero in quei giorni le diatribe dei pedanti se fosse più corretto parlare di atterraggio o di allunaggio. E i dubbi dei bambini: se la luna, che è lunatica, non è nel quarto giusto e non è piena ma è ridotta a una fettina, come faranno a sbarcare? Ricordo l’euforia per lo sbarco, unita allo sgomento, lo svanire improvviso dei sogni terreni e delle ideologie. Tutto diventò piccolo sulla Terra. Pure la Contestazione globale del ’68 diventò preistoria rispetto all’astronave e alle sfere celesti; cosa vuoi sfilare in corteo nelle galassie?

Ariosto aveva immaginato nel suo Orlando Furioso che sulla luna ci fossero le cose perdute in Terra, e l’avventura lunare sarebbe stato un viaggio alla ricerca del tempo perduto. Invece apparve un deserto, il futuro resettò la memoria. Quella notte vanificò il proposito di Astolfo di andarsi a riprendere il senno perduto sulla luna. Si previdero grandi conquiste spaziali, traslochi in massa su altri pianeti; una canzone aveva già profetizzato: «Nel Duemila noi non mangeremo più gli spaghetti col ragù, solo pillole». Luna «busciarda». La rivoluzione annunciata poi non avvenne. Di quel tecno-miracolo restò un’impresa epica e vana, un’avventura sterile e magnifica nell’ignoto, un tentativo prometeico d’inoltrarsi coi mezzi della tecnologia nei pressi della magia, alle fonti della fiaba. L’incanto di una notte di mezza estate davanti al video, la partecipazione cosmica a un evento reale di storia virtuale.

Gli sbarchi sulla luna finirono là, salvo trascurabili appendici. La luna tornò pallida, in preda ai romantici, ai lupi mannari, agli innamorati e ai leopardiani. E gli stolti che guardavano il dito anziché la luna si sentirono savi. Tornarono gli spaghetti con le antichissime cozze e la pasta col ragù, di lentissima fattura, il contrario del veloce futuro. Tornò la luna caprese di Peppino Di Capri. In questo mezzo secolo non abbiamo conquistato la luna né colonizzato Marte; in compenso abbiamo inguaiato la terra, l’aria, l’acqua, il clima, annegando tra le onde magnetiche. L’aveva vaticinato Guido Ceronetti nella sua lunatica e apocalittica Difesa della luna.

È finita l’epoca eroica della modernità. C’era una volta il futuro, adesso c’è solo il presente. Lasciammo la via Lattea per incolonnarci sul Raccordo anulare. Da allora la luna ci guarda sorniona, restituita al suo legittimo proprietario, il sogno, persa nelle braccia del buio. Riprese a dettare armonie nella notte, lasciando sul mare le sue bave argentate, vaga lumaca del cosmo. La luna si rifece una verginità e un destino.

Sul piano del pensiero, però, qualcosa di decisivo accadde il 20 luglio del ’69. La vera impresa spaziale non fu la conquista della luna ma l’emancipazione dalla Terra, lasciata alle spalle, vista da fuori e da lontano, piccola e remota, relativa, quasi una provincia del cosmo. Da allora fu nitida la visione del globale, da cui poi prese piede il processo di globalizzazione. Sulla luna avvenne il passaggio di consegne dalla filosofia alla tecnica, dalla poesia alla scienza. La conquista della luna si capovolse in perdita della Terra, notò Heidegger, denunciando lo sradicamento e il dominio planetario della tecnica sull’umano. Ma col chiarore della luna riaffiora la nostalgia degli dei.

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