Si fa presto a dire «produciamo il vaccino Covid in Italia»
Il tweet di Roberto Burioni parte in piena notte, ed è –come spesso succede- un dardo al cuore delle politiche governative: quantomeno di quelle del Conte-bis.
Si parla, anzi si twitta di produzione dei vaccini in Italia e il professore si chiede come mai l'idea di sondare le possibilità di produrre vaccini (non autoctoni, ma già sviluppati altrove, quindi testati e approvati) nel nostro Paese convertendo le produzioni di aziende già esistenti arrivi solo ora, visto che già in novembre si aveva la certezza che i sieri di Pfizer e Moderna fossero "mostruosamente" efficaci: "4 mesi regalati al virus, centinaia di morti al giorno", chiosa Burioni, mentre la notizia che il nuovo ministro delle Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti incontrerà giovedì il presidente di Farmindustria –proprio per approfondire le possibilità di produzione in Italia ed esaminare possibili siti da utilizzare- si diffonde sulle homepage di tutti i siti di news.
Clamorosi ritardi governativi a parte, quanto è davvero fattibile il progetto di auto-produzione di vaccini, con strategie volte a riconvertire aziende esistenti, naturalmente con aiuti statali ed europei?
Hera Incubator
Intanto dobbiamo ricordare che l'Unione Europea ha da pochi giorni varato un piano, chiamato Hera Incubator che mira a mettere in rete aziende, ricercatori, produttori e istituzioni non solo per riuscire a rilevare tempestivamente le nuove varianti ma anche per incentivare lo sviluppo di vaccini, accelerare l'analisi e l'approvazione delle agenzie regolatorie, regolare il meccanismo di rilascio delle licenze e soprattutto aumentare in maniera esponenziale la produzione europea di antidoti: il tutto naturalmente grazie alla collaborazione tra mondo privato e istituzioni pubbliche. Il "perimetro" entro il quale muoversi per produrre vaccini autonomamente all'interno del nostro territorio nazionale, quindi, ci sarebbe già: purtroppo, quello che manca è il resto, dato che per avviare la produzione di sieri sofisticati come quelli di Pfizer e Moderna –basati sull'Rna messaggero e non sull'adenovirus come il più tradizionale vaccino AstraZeneca- ci troviamo davanti a difficoltà ingenti.
Bioreattori per la produzione
Come ha più volte ripetuto proprio il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, il vaccino, in quanto prodotto vivo, "va trattato in maniera particolare. Deve avere una bioreazione dentro una macchina che si chiama bioreattore: insomma, non è che si schiaccia un bottone ed esce la fiala. Da quando si inizia una produzione passano 4-6 mesi".
Proprio i 4-6 mesi di cui parlava Burioni (e sui quali riflettono tutti gli italiani dotati di buonsenso) che sono stati buttati alle ortiche, mentre si disquisiva di fasce a colori e di "chiudere adesso per salvare il Natale".
Peccato che nel frattempo siamo arrivati quasi a Pasqua, e tecnologie e bioreattori continuiamo a non averne. Anzi, in verità ci sarebbero quelli di GSK (GlaxoSmithKline) Siena, di cui è direttore scientifico Rino Rappuoli, già scopritore del vaccino contro il meningococco B.
Ma, spiega lo scienziato "I bioreattori Gsk non sono per il vaccino anti-Covid, bensì per quello contro la meningite, che è batterico. Se si pensasse, per esempio, di adattarli per la
produzione di vaccini anti-Covid, questo significherebbe smettere di produrre il vaccino contro la meningite".
Il caso Reithera
In effetti, i bioreattori in Italia li avrebbe anche Reithera, ma su questa azienda occorre aprire una parentesi: perché nei mesi durante i quali, secondo Burioni, si sarebbe dovuto pensare a come produrre in Italia i vaccini Pfizer e Moderna già approvati –e di sicura efficacia- da parte del Governo si portava invece avanti l'idea del vaccino autoctono, tutto italiano: appunto il "celebre" Reithera, in preparazione negli stabilimenti di Castel Romano, che però è appena entrato in fase 2 e (ammesso che la sperimentazione vada a buon fine e che venga approvato da Ema e Aifa) non potrà essere prodotto prima di settembre 2021: troppo tardi.
Piccola nota a margine; il vaccino "tutto italiano" (in verità ReiThera è un'azienda italo-svizzera) sul quale si sono concentrati gli sforzi del Conte-bis, a fine gennaio ha ottenuto un finanziamento di 81 milioni di euro da parte di Invitalia: 69,3 milioni destinati alle attività di ricerca e sviluppo per la validazione e produzione del vaccino anti-Covid e la restante quota (11,7 milioni) per ampliare lo stabilimento di Castel Romano dove sarà prodotto l'antidoto.
"Lo Stato italiano entra con capitale pubblico in ReiThera, l'azienda di Castel Romano che sta sviluppando il vaccino AntiCovid. È una scelta giusta e importante" scriveva su Facebook Roberto Speranza il 27 gennaio, poco dopo le dimissioni di Conte "Da questa crisi dobbiamo uscire più forti per garantire la salute delle persone oggi e domani", proseguiva il ministro, molto soddisfatto di finanziare un vaccino ancora in fase 1 mentre nel resto del mondo impazzava la corsa a firmare contratti con Pfizer e Moderna.
Inoltre, per la realizzazione di questo vaccino erano già arrivati altri 8 milioni di euro, 5 a carico della Regione Lazio e 3 a carico del Ministero dell'Università e della Ricerca scientifica.
Molto denaro su un progetto a lunghissima e incerta scadenza: nessun passo avanti, invece, sulla possibilità di produrre nel nostro Paese i vaccini già sperimentati.
Il cambio di passo di Mario Draghi
In ogni caso, quello che sappiamo adesso è che la produzione di vaccini in proprio è una priorità del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi, che infatti ha già affrontato l'argomento in un colloquio telefonico con Angela Merkel: si pensa già a come incentivare le aziende verso la riconversione delle linee produttive, ovviamente con aiuti statali.
Anche perché una strada percorribile sarebbe proprio quella di diversificare le varie fasi, come già fanno le multinazionali quali Pfizer o Moderna che producono i loro vaccini servendosi di più stabilimenti con diverse specifiche, dislocati anche in diversi Paesi. Anche considerando il fatto che, per esempio, in Italia esistono aziende in grado di infialare i vaccini: per esempio, la Catalent di Anagni, che sta già infialando il siero di Astrazeneca, anche se –spiega sempre Scaccabarozzi- bisognerà capire se è in grado di infialare anche vaccini a mRna.
E riguardo all'idea di convertire le fabbriche che producono antinfluenzali, anche su questo da Farmindustria vanno con i piedi di piombo, perché la produzione deve partire tra un mese e fermarla ora significherebbe non avere le dosi necessarie in autunno.
I 6 mesi buttati, di fatto, stanno rendendo la strada di Mario Draghi –verso i vaccini ma non solo- difficile e piena zeppa di ostacoli. Quello che al momento possiamo fare è solo confidare in un "whatever it takes" vaccinale che possa permettere al nostro Paese, finalmente di correre verso l'immunità senza perdere tempo. Anche perché, di tempo, non ne abbiamo più.
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