Economia
October 15 2018
Fino a un anno fa, il mondo viveva un periodo di accelerazione economica sincronizzata. Nel 2017, ricorda The Economist che dedica la copertina del settimanale alle ombre di una nuova recessione, la crescita è stata il denominatore comune di tutte le grandi economie avanzate e della maggior parte di quelle emergenti.
Lo scorso anno, il commercio globale continuava a crescere, gli Stati Uniti erano in piena espansione, la Cina era riuscita a tenere sotto controllo la deflazione e anche la zona euro, con l’unica eccezione della Gran Bretagna, era fiorente.
Nel 2018, lo scenario è completamente diverso. Questa settimana, i mercati azionari sono crollati in tutto il mondo per la seconda volta: gli investitori, infatti, sono preoccupati per il rallentamento della crescita e per gli effetti delle scelte della Fed sulla politica monetaria americana.
Le paure sono fondate: il problema dell'economia mondiale nel 2018 è il suo andamento irregolare.
Negli Stati Uniti, il taglio delle tasse promosso dal presidente Trump ha contribuito a una crescita trimestrale annualizzata superiore al 4% e la disoccupazione è al minimo dal 1969.
Eppure, il Fondo Monetario Internazionale ritiene che la crescita rallenterà quest'anno in ogni altra grande economia avanzata. E anche i mercati emergenti sono nei guai.
Dal dicembre 2015 a oggi, la Federal Reserve ha aumentato i tassi di interesse otto volte. La Bce è ancora lontana dal suo primo aumento, mentre in Giappone i tassi sono negativi.
Questa settimana, la Cina ha allentato la politica monetaria in risposta a un'economia in declino.
Quando i tassi di interesse aumentano soltanto negli Stati Uniti, il dollaro si rafforza e questo rende più difficile per i mercati emergenti rimborsare i loro debiti in dollari. Un dollaro in rialzo ha già contribuito a spingere l'Argentina e la Turchia nei guaie il Pakistan ha chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale.
Rispetto a vent’anni fa, quando i mercati emergenti rappresentavano il 43% della produzione mondiale (misurata dal potere d'acquisto), oggi sono al 59%. I loro problemi, dunque, potrebbero rimbalzare sugli Stati Uniti, proprio mentre il boom domestico inizia a spegnersi.
A quel punto, il resto del mondo potrebbe trovarsi in condizioni peggiori se le difficoltà di bilancio dell'Italia non diminuiranno o la Cina subirà un forte rallentamento. I mercati emergenti stanno causando perdite agli investitori, ma nel complesso le loro economie sembrano tenere.
La buona notizia è che i sistemi bancari sono più resistenti di quando la crisi ha colpito dieci fa e la possibilità di una recessione grave come quella del 2008 è bassa. Inoltre, la guerra commerciale di Donald Trump non ha ancora causato gravi danni.
Se il boom dell'America cede il passo a una recessione poco profonda, mentre lo stimolo fiscale diminuisce e i tassi aumentano, non sarebbe uno scenario inusuale dopo un decennio di crescita. Eppure, è qui che potrebbero arrivare i problemi.
Il punto è che il mondo ricco è mal preparato per affrontare anche una lieve recessione. In parte perché le misure politiche a disposizione si sono ridotte nel combattere l'ultima recessione. Nell'ultimo mezzo secolo, infatti, la Fed ha tagliato i tassi di interesse di cinque punti percentuali in una recessione.
Oggi ha meno della metà di quella possibilità di manovra e la Zona Euro e il Giappone non hanno spazio. La politica, è vero, ha altre opzioni, come il quantitative easing, ma se ciò non dovesse bastare, potrebbero essere necessari approcci più radicali e non testati, come dare soldi direttamente ai cittadini oppure aumentare la spesa statale.
A questo punto, però, bisogna chiedersi se l'uso di queste armi sia politicamente accettabile. Le banche centrali, infatti, dovranno affrontare la prossima recessione con i bilanci già gonfiati: la Fed, per esempio, vale il 20% del Pil.
Chi si oppone al quantitive easing sostiene che distorce i mercati e gonfia le bolle. Per quanto fuorvianti, queste opinioni attirerebbero un esame ancora più approfondito sul QE e i vincoli sono particolarmente stringenti nella Zona Euro, dove la Bce si limita ad acquistare il 33% del debito pubblico di qualsiasi paese.
Indipendentemente dagli argomenti economici, lo stimolo fiscale attirerebbe anche l'opposizione politica. L'Ue è di nuovo il caso più preoccupante, se non altro perché i tedeschi e gli altri nordeuropei temono di ritrovarsi con debiti insoluti nel caso di inadempienza di un paese.
Le restrizioni sui prestiti sono studiate proprio per contenere le inadempienze, ma il rovescio della medaglia è che limitano il potenziale di stimolo.
L’America, che è più disposta a spendere, ha recentemente aumentato il deficit a oltre il 4%, ma proseguire su questa strada potrebbe avere conseguenze politiche. A livello internazionale, la politica è un ostacolo ancora più grande, perché l’ascesa dei populisti complicherà il compito di lavorare insieme proprio quando servono sinergie.
Giocare d’anticipo potrebbe evitare alcuni di questi pericoli. Le banche centrali potrebbero avere nuovi obiettivi che rendono più difficile intervenire durante e dopo una crisi.
Se hanno stabilito un impegno per recuperare terreno quando l'inflazione è bassa o la crescita delude, le aspettative di una ripresa potrebbero fornire uno stimolo automatico. In alternativa, alzare l'obiettivo di inflazione potrebbe far aumentare i tassi di interesse, dando più spazio ai tagli quando sarà necessario.
Il futuro stimolo fiscale, dunque, potrebbe essere messo in cantiere in questo momento per aumentare la potenza degli "stabilizzatori automatici", come la spesa per la disoccupazione che aumenta quando l’economia rallenta. La zona euro, inoltre, potrebbe allentare le regole fiscali per consentire ulteriori stimoli.
Il problema, però, è che l’azione preventiva richiede iniziativa politica che in questo periodo è vistosamente assente.
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