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December 15 2014
Ma anche non se ne può più di queste sceneggiate delle riunioni di partito, le assemblee nelle quali si preannunciano e poi si smosciano le “rese di conti”, e non si consumano mai le paventate “scissioni” né mai si arriva allo show down definitivo, quello alla Gianfranco Fini che dice a Silvio Berlusconi: “Che fai, mi cacci?”. Il Pd è un partito da operetta.
In pieno quartiere snob dei Paroli, all’Hotel Parco dei Principi significativamente contiguo allo Zoo, il caravanserraglio democratico si sviluppa attraverso le declamazioni del segretario-leader-premier (le migliori battute riguardano stavolta quei magistrati che preferiscono parlare con le interviste invece che con le sentenze). Per il resto, lo spettacolo riserva qualche momento di tensione controllata quando Stefano Fassina, portavoce dell’intransigenza sindacale, si rivolge dalla cavea a Matteo urlando la stanchezza di vedere il segretario rifare le caricature dei suoi avversari, Fassina incluso. In replica Renzi obietta che a essere caricaturato è lui quando lo si dipinge come la “Mrs. Thatcher de’ noantri”, oppure il governo come governo della Troika.
Non è così che il paese esce dalle secche. Resta il problema, sottotraccia, di una fronda minoritaria del Pd incapace di dar vita a un partito nuovo della sinistra vecchia, perché i voti e i soldi e il consenso sono con Matteo e col suo Pd nel quale ci stanno anche loro (e ci restano perché dove mai potrebbero andare).
Una sinistra minoritaria che utilizza lo strumento dei numeri in Parlamento, quelli dei parlamentari “bersaniani” e “dalemiani” e “civatiani”, relitti di un’altra epoca tuttavia detentori di un potere di veto e di voto che pesa. E che peserà, soprattutto, nel momento in cui, a gennaio, si dovrà scegliere il successore di Giorgio Napolitano.
Il presidente della Repubblica nell’era di Renzi
A chi andrà lo scettro di Re Giorgio? Quali equilibri si comporranno per incoronare l’uomo del Colle? Uno interno al Pd, grazie al compromesso tra maggioranza renziana e minoranza mista, o quell’altro che ha retto finora, nonostante tutto, sulla legge elettorale e le riforme in genere, cioè tra Pd renziano e Forza Italia?
Nel frattempo va a concludersi il semestre di presidenza italiano della UE, giovedì con l’ultimo vertice, e a gennaio quando Renzi traccerà davanti all’Europarlamento il suo bilancio di presidente di turno. Ed ecco perché si alza il tono della polemica in nome della Troika piuttosto che della crescita e del piano Juncker di investimenti, mentre l’Italia si dibatte nei propri guai e le riforme tardano a incidere e rilanciare il sistema.
Renzi rassicura tutti, di nuova legislatura si parlerà nel 2018. Altro che voto anticipato. Eppure, si respira nei palazzi del potere un’aria di sospensione, di attesa che tutto possa in realtà succedere. Anche la rottura degli equilibri e il ritorno anticipato alle urne dopo tre esecutivi guidati da premier non direttamente investiti dal popolo. Perché al di là dello psicodramma di facciata del Partito democratico, c’è lo psicodramma reale di un paese che soffre e che non riesce a ripartire. L’arrivo della Troika, di fatto se non formale, è tutt’altro che un’ipotesi remota. Con buona pace delle urla di Fassina, dei mal di schiena di Bersani che ieri all’assemblea del Pd non c’era, e delle ambizioni eternamente rinverdite di Massimo D’Alema.