Dal Mondo
March 18 2024
«Vorrei solo capire come mai possa talvolta accadere che tanti uomini, tanti borghi, tante città, tante nazioni subiscano un solo tiranno che non ha che il potere che essi gli attribuiscono, che può fare loro del male solo nella misura in cui essi sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe farne loro alcuno se essi non preferissero subire tutto da lui piuttosto che contraddirlo. È cosa sorprendente – ma così frequente che bisogna più rammaricarsene che stupirsene – di vedere un milione di uomini miseramente asserviti, la testa china sotto il giogo, non perché costretti da forza maggiore, ma perché affascinati, per non dire stregati, dal solo nome di quell’uno, che non dovrebbero né temere, perché è solo, né amare perché è inumano e crudele verso tutti loro. Eppure questa è la debolezza degli uomini: costretti all’obbedienza, obbligati a temporeggiare, non possono essere sempre i più forti».
A dirlo non è stato Alexey Navalny, il fantasma che aleggiava sulle elezioni russe vinte a valanga dal presidente Vladimir Putin. Quando i russi sono andati a votare, Navalny era già morto in un carcere siberiano - dov’era rinchiuso da anni perché dissidente - guarda caso pochi giorni prima che Putin ottenesse il quinto mandato consecutivo.
A scrivere queste parole è stato invece Étienne De La Boétie nel XVI secolo, epoca in cui il filosofo, scrittore, politico e giurista francese diede alle stampe La servitù volontaria, una dissertazione retorica sull’arbitrarietà di ogni potere. E certo, non si può che parlare d’interpretazione arbitraria circa le profonde ragioni che portano le elezioni russe a essere sempre uguali: un plebiscito che, per quanto possa sembrare assurdo in Europa, conferma il rapporto simbiotico tra i cittadini russi e il loro leader, che si candida a essere il più longevo di sempre per permanenza al potere, insieme a Joseph Stalin: dopo la morte di Lenin, Stalin resse la carica di segretario generale del Pcus dal 1922 fino alla morte, avvenuta nel 1953. Putin potrebbe superarlo alla fine di questo mandato.
Un rapporto, quello con il popolo russo che si configura come una vera e propria «sindrome di Stoccolma» ovvero quel particolare stato psicologico che, paradossalmente, pone le vittime di un sequestro o di un abuso ripetuto a nutrire sentimenti positivi verso il proprio aguzzino, che possono oscillare dalla solidarietà al vero e proprio innamoramento. Ed è esattamente ciò che è capitato ai cittadini di Russia: per quanto possa sembrare illogico agli osservatori esterni, loro credono fermamente in Putin e lo sosterranno anche nei momenti più duri. E questo perché la sua immagine politica accuratamente costruita, si basa sull’idea che sia «un infrangibile dio della guerra, cui nessun avversario può resistere», come ha scritto Aleksandar Đokić, politologo e analista serbo, su Novaya Gazeta. Questo è il segreto del suo successo ed è anche il nucleo essenziale del suo personaggio politico, che egli modula a seconda che si trovi di fronte ai giovani elettori, alle truppe in prima linea o ai capi di Stato stranieri.
Può sembrare strano, ma proprio l’invasione su larga scala dell’Ucraina ha contribuito non soltanto a consolidare la sua ferrea presa sul potere, ma anche ad affermarlo come l’uomo forte che non teme le scelte difficili. E di conseguenza è massimamente rispettato proprio perché ha il «coraggio» di andare solo contro tutti in opposizione all’Europa e alla Nato. Anche se l’immagine politica di Putin in Russia dall’inizio della guerra contro Kiev ha iniziato a incrinarsi, dai gli scarsi risultati, non per questo i cittadini sono mai stati incerti o sul punto di abbandonarlo. Vero è che è ancora lontanissimo dall’ottenere una vittoria decisiva contro l’Ucraina. Così com’è vero che la rapida crescita economica che lo aveva reso così popolare nei primi anni, si è ormai esaurita.
Ma proprio la guerra è stata la migliore opportunità per Putin di riportare un governo totalitario in Russia, assicurandosi la presa definitiva sul potere, nell’attesa che l’Ucraina alla fine crolli sotto la pressione. «In quel caso Putin, il dittatore di guerra, anche se malconcio avrà prevalso ancora una volta» dice Đokić. E ha ragione da vendere: con l’inizio del conflitto, il presidente aveva gettato la maschera e ogni parvenza di libertà politica o dissenso avevano cominciato a scomparire progressivamente, sostituite da un pugno di ferro che, agli occhi dei russi, si giustificava in quanto necessario a fronteggiare un’emergenza.
Anche perché nel frattempo Kiev era diventata non solo un tarlo, ma anche un pericolo per Putin: fiera e orgogliosa, filo-europea e atlantista, rappresentava una minaccia per la stabilità del regime di Mosca e, se lasciata incontrollata, avrebbe potuto infettare con il suo esempio e con i semi della democrazia la Federazione Russia. Proprio per questo, invaderla è stata la grande occasione per rafforzare il dominio personale. L’idea era «una nuova “grande guerra” che sarebbe passata alla storia della Russia, avrebbe segnato l’eredità di Putin e avrebbe consolidato il suo potere. La vittoria però non è arrivata. Nonostante ciò, il regime ha trovato un nuovo modo per prolungare la sua permanenza al potere: una guerra perenne di minore intensità».
In un certo senso, a Putin adesso è sufficiente mantenerla in vita questa guerra, evitando di provocare disordini civili, nella convinzione che l’Ucraina alla fine crollerà sotto la pressione dei bombardamenti incessanti e che l’Europa si stancherà di sostenerla perché si sta dissanguando economicamente. In quel caso, Vladimir Putin avrà prevalso ancora una volta, e soprattutto avrà trasformato una mezza sconfitta in una grande vittoria agli occhi del popolo russo. Dunque, da un lato il presidente si avvantaggia del fatto che Kiev non può vincere perché il tempo e i numeri non sono dalla sua parte; dall’altro è certo che né Washington né Bruxelles forniranno aiuti sufficienti a sconfiggere Mosca anche per paura che a questo possa seguire una disgregazione caotica della Russia, o peggio una guerra totale tra Occidente e Oriente che nessuno vuole davvero.
Ecco perché il plebiscito per Putin era anche un referendum sulla guerra: le elezioni stravinte dal leader danno ora al presidente della Federazione Russa mano libera sulle strategie di guerra, e la certezza di poter continuare la sua campagna in Ucraina come meglio crede. Il risultato elettorale gli fornisce non solo maggiori munizioni retoriche, ma anche lo stimolo per insistere come e più di prima sul campo di battaglia, corroborato dalla caduta delle città ucraine orientali di Bakhmut e Avdiivka che, per quanto scarsi come risultati, gli offrono un’occasione per gonfiare il petto. Ad aiutare Putin c’è anche il balbettio dell’Occidente sulla prosecuzione dei rifornimenti bellici, in particolare in seno al Congresso degli Stati Uniti, dove un pacchetto di aiuti cruciali a Kyiv è incredibilmente ancora bloccato.
In un’intervista pre-elettorale, Putin stesso aveva tirato fuori proprio questo argomento: «Negoziare ora solo perché stanno finendo le munizioni è in qualche modo ridicolo da parte nostra» aveva detto, fiducioso come i suoi generali che l’Ucraina sia ormai incapace di resistere a lungo. Ecco perché, appena rieletto, ha promesso di rafforzare le forze armate russe e ha ordinato di dare priorità a quella che lui stesso continua a definire «l’operazione militare speciale» della Russia in Ucraina, evitando bene di pronunciare la parola «guerra». Putin ha così avuto gioco facile nell’affermare che la sua vittoria elettorale dimostra come «i russi sono uniti e non si lasceranno intimidire» ed è perciò indispensabile portare a termine l’operazione.
Ormai così sicuro di sé, per la prima volta Putin ha pronunciato anche il nome di Alexey Navalny in pubblico: non accadeva da anni. Ma adesso quella pratica si può davvero archiviare, così come si possono mettere alle spalle le proteste del «Mezzogiorno contro Putin», organizzate dalla vedova del defunto dissidente, Yulia Navalnaya, che avevano avuto luogo nei seggi elettorali di diverse città russe e all’estero, sia pur con scarsissimo risultato (certo, in un Paese libero le cose sarebbero andate diversamente, ma tant’è). Putin si è fatto anzi beffe di Navalny, dichiarando ai giornalisti di aver «accettato un accordo di scambio per liberare Navalny» giusto poco prima della sua morte. «È una cosa triste, ma capita» ha liquidato la faccenda con un tono tra il mafioso e il divertito.
Così adesso la repressione interna può continuare impunemente e, almeno nel breve termine, il leader russo continuerà a costruire la sua immagine di nuovo zar, un autocrate che dopo avere salvato il Paese dalla tragedia, garantisce stabilità e benessere al popolo in cambio della sua rinuncia alle libertà civili. Questo patto col diavolo ai russi va bene, come va bene un dittatore che solletica il loro desiderio malcelato riacquisire con la forza quel diritto presunto della Russia a riprendersi un impero europeo che gli è stato sottratto.
Ma anche questo autoconvincimento ha i suoi lati oscuri. Anzitutto, perché il terreno scelto per cementificare la sua gloria, ovvero la guerra, è sempre imprevedibile. E, a prescindere dagli sforzi immani e dalla grande capacità di Putin di girare le cose in proprio favore, a lungo termine i nodi della Russia - il declino demografico, il costo della guerra e delle sanzioni, e la fragilità intrinseca del governo di un solo uomo - restano e non scompariranno prima che Putin si candidi per un sesto mandato. Nel frattempo, i russi avranno sperimentato sulla propria pelle se la politica di potenza di Vladimir Putin era sensata o se invece Kiev sarà la tomba del suo impero.