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March 11 2017
Alla fine la storia presenta sempre il conto e mai come in questo momento Barack Obama rischia di passare ai posteri come un presidente incapace, non adeguato a difendere i valori e la potenza dell’America. Succede che in politica internazionale un tycoon, un magnate del cemento, conduttore televisivo e gaffeur in sintonia con la “pancia” della sconfinata provincia americana stia dando invece prova di essere uno statista.
Gli Stati Uniti di Trump hanno già adesso un posizionamento diverso e più assertivo nello scacchiere mondiale. Obama aveva cominciato la sua presidenza con un meraviglioso discorso di dialogo e apertura verso l’Islam, presentando il volto di un’America non più temuta ma amica. Di fatto, disimpegnata dal Medio Oriente, persino distante dagli storici amici israeliani. Un’America che non guarda a est, verso il Mediterraneo e il Golfo, ma a Ovest, verso l’Asia. Non aveva fatto i conti, Obama, con la ex super-potenza avversaria, la Russia di Putin, che ha preso in mano la situazione in Siria a modo suo, e in una mescolanza abile e spregiudicata di bombe e diplomazia ha gettato le basi per una rinascente stabilità mediorientale.
Paradossalmente, dobbiamo tutti essere grati a Mosca per la guerra che ha scatenato contro l’Isis, avendo preparato però il terreno per la pace futura attraverso accordi con rivali storici (tra loro) nell’area: la Siria di Assad, la Turchia, l’Iran. Putin ha deciso di schierarsi col mondo sciita nel melmoso confronto millenario che li contrappone ai sunniti (rappresentati in primis dall’Arabia Saudita).
La vittoria di Trump si inserisce in questo racconto non a caso. Il predominio politico e militare della Russia in Medio Oriente e il contemporaneo ripiegamento USA secondo la filosofia dello “Stay Behind” obamiana, hanno fatto precipitare l’autorevolezza americana nel mondo. “Autorevolezza”, soprattutto in Medio Oriente, che significa una sola cosa: forza. La voluta debolezza di Obama, portavoce delle riflessioni degli intellettuali alla East Coast, non si è risolta in ritrovata forza dello spirito o in consenso tra i popoli arabi e musulmani. Ma in arretramento, rinuncia, spostamento di interesse. Così Obama ha rinunciato a combattere la guerra all’Isis, limitandosi a autorizzare uccisioni mirate con i droni e azioni non definitive e massicce di contenimento dell’espansione jihadista. La rottura del tradizionale sostegno a Israele è stato l’ennesimo, tragico errore della politica estera di Obama.
Adesso la musica cambia. L’America con Donald Trunp vuole “tornare a essere grande”. Partono 400 Marines per aggiungersi ai 500 americani già presenti in Siria per l’assalto alla capitale del Califfato, Raqqa. Il capo di Stato maggiore della Difesa statunitense incontra ad Antalya, nel territorio neutro della Turchia, i suoi omologhi russo e turco. Gli Stati Uniti tornano a far pesare il proprio ruolo di super-potenza, in un Medio Oriente troppo a lungo abbandonato a se stesso, cioè all’anarchia.
La Russia di Putin ha tutto l’interesse a completare l’opera diplomatica coinvolgendo nei negoziati di pace a Astana anche l’America di Trump. E forse, finalmente, possiamo aspettarci che si arrivi alla fine della guerra all’Isis che l’America non ha voluto combattere. Gli osservatori erano per lo più convinti che il Califfato non fosse quel pericolo terrificante che sembrava, gli israeliani in particolare hanno sempre sostenuto che la vera minaccia nell’area veniva dall’Iran e che i jihadisti di Al-Baghdadi non dovevano far paura se non per puntuali azioni terroristiche (ma senza la piattaforma di uno Stato, anche i terroristi avranno minori mezzi e strumenti per colpire).
La morale (o l’a-morale) della favola è che la guerra all’Isis si sarebbe potuta vincere prima. E che c’è finalmente, grazie agli “impresentabili” Putin e Trump, la chance concreta di un nuovo assetto di stabilità e relativa pace in Medio Oriente. Naturalmente senza l’Europa, questa sconosciuta.