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Quanto ci costa la Giustizia ingiusta

Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto». Volente o nolente, una parte della magistratura italiana sembra eternamente incagliata nel severo aforisma kantiano. Bisogna raddrizzare gli alberi, soprattutto i fusti dell’economia e della politica. Anche a costo di epocali cantonate e incalcolabili danni. Elon Musk ha sintetizzato l’inconfessabile con un tweet urticante: «Questi giudici se ne devono andare». Si riferiva alla tenzone tra il governo italiano e i tribunali sui centri per il rimpatrio in Albania. I magistrati contestano la lista dei «Paesi sicuri» dove rispedire i clandestini. L’uomo più ricco e potente del mondo ama scherzare con il fuoco. Tutti si sono precipitati a sconfessare l’ennesima incontinenza verbale. Ma molti, sotto sotto, non si sono rammaricati. Del resto, già qualche mese fa Musk aveva difeso il segretario della Lega, Matteo Salvini, imputato per aver negato l’approdo sulle coste italiana della nave di Open Arms, indomita ong spagnola: «È scandaloso che sia sotto processo per aver fatto rispettare la legge».

«Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove» assicurava Piercamillo Davigo detto «Piercavillo»: fu eroe di Mani Pulite, consigliere del Csm, tintinnanti schiavettoni e indice ritto, condannato lo scorso marzo a un anno e tre mesi per rivelazioni d’atti d’ufficio in un’inchiesta denominata «falso complotto Eni». Ecco, a proposito. Alla categoria dei rei immaginari bisogna spesso iscrivere, oltre che i governanti, pure supermanager, grandi imprenditori e poveri cristi: assolti dopo interminabili processi e talvolta incarcerati per ubbie giacobine. E poi ci sono anche i ritardi e le inefficienze dei tribunali civili. Quanto ci costa allora la giustizia ingiusta? Almeno l’1 per cento del Pil, quantifica Bankitalia. Una ventina di miliardi all’anno. Ricordate, per esempio, la scoppiettante inchiesta sulla corruzione in Liguria? Ha terremotato la giunta guidata da Giovanni Toti, sputtanato per mesi su televisioni e giornali. Adesso gli ultimi dati di Unimpresa certificano l’ovvio: l’economia della regione langue. Nei primi nove mesi di quest’anno, rispetto al 2023, il fatturato delle imprese liguri è sceso del 18 per cento: quasi nove miliardi in meno. Per un’inchiesta che s’è conclusa con patteggiamenti poco più che simbolici. Il tribunale di Brescia, intanto, lo scorso 21 novembre deposita le motivazioni della condanna a otto mesi del procuratore aggiunto uscente di Milano, Fabio De Pasquale, mito dei manettari tricolore: unico uomo sulla terra ad aver ottenuto lo scalpo giudiziario di Silvio Berlusconi, per la frode fiscale sui diritti televisivi. Ora invece tocca a lui, assieme al collega Sergio Spadaro: «Hanno utilizzato solo ciò che poteva giovare alla propria tesi» scrivono i giudici bresciani, «tralasciando chirurgicamente i dati nocivi» a favore degli imputati del processo Eni. I manager erano finiti sotto accusa, ingiustamente, per aver versato una presunta colossale tangente: circa 1,1 miliardi di euro pagati per ottenere i diritti di esplorazione nell’oceano Atlantico, al largo di Lagos. Nel 2014, De Pasquale avvia dunque l’indagine. La Nigeria confisca quel giacimento, chiamato Opl 245, da oltre 500 milioni di barili di oro nero. Il 17 marzo 2021 il tribunale di Milano demolisce però l’inchiesta, assolvendo tutti gli imputati, a partire dall’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. I giudici segnalano non solo la mancanza di prove, ma criticano pure le decisioni «irrituali» e «incomprensibili» dei due magistrati, rimasti peraltro in servizio. E a luglio 2022 la procura generale rinuncia a impugnare la sentenza.

La megatangente era una megapanzana. Ma quanto sono costati otto anni alla berlina? Almeno cinquanta milioni di euro in spese legali pagati dal colosso energetico, intanto. Da aggiungere alle spese sostenute dalla procura per imbastire il processo. A cui andrebbe sommato, soprattutto, quell’abbondante miliardo investito per non poter estrarre nemmeno una goccia di petrolio. Senza considerare l’incalcolabile danno d’immagine. E la beffarda nemesi: la condanna degli inquisitori arrivata lo scorso ottobre. Sentenza tra l’altro già preceduta, qualche mese prima, da una delibera del Csm, che ha deciso di non confermare De Pasquale nell’incarico di aggiunto: «Risulta dimostrata l’assenza dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza senso della misura e della moderazione». E lo dicono adesso? Dopo un trentennio di rutilanti accuse?L’Eni, poi, è sempre stato il suo pallino investigativo. Nel 2012 il magistrato aveva già coordinato un’inchiesta per una presunta corruzione della controllata Saipem in Algeria, per ottenere commesse petrolifere da otto miliardi di euro. Tra gli indagati, anche questa volta, c’è l’amministratore delegato del tempo: Paolo Scaroni. «Una tangente mai vista» si frega le mani De Pasquale, evocando il solito superlativo assoluto. Peggio di Tangentopoli. Scalmanati politici pucciano le manette nel brodo giustizialista. Beppe Grillo, all’epoca veneratissimo fondatore dei Cinque stelle, assalta: «Eni da molti anni si regge su un sistema corruttivo di portata mondiale, su un’attività criminogena». La prova decisiva, ovviamente, è l’indagine della procura milanese. Ma che si concluderà, ancora una volta, con l’assoluzione degli imputati. Grillo, però, è scatenato. Si presenta all’assemblea dell’Eni. Chiede la parola da piccolo azionista. Annuncia una commissione d’inchiesta, per investigare sulle magagne di quei felloni planetari: «Saipem era un gioiello, adesso è ridotta quasi in liquidazione con le azioni passate da 40 a 7 euro». Conseguenza anche del danno reputazionale, però. In quei mesi, Grillo zompa inarrestabile su ogni supposta magagna di Stato. Cavalca pure l’indagine su Finmeccanica, l’altra gloriosa multinazionale. Nel 2013 è arrestato l’allora presidente, Giuseppe Orsi, per presunte tangenti pagate dal governo indiano per l’acquisto di elicotteri AgustaWestland. Nell’aprile 2016 viene condannato. Un mese dopo, l’India annuncia che avrebbe rescisso contratti con l’Italia per circa due miliardi di euro: elicotteri, cannoni, siluri, radar, missili. Il ministro della Difesa indiano annuncia: «Non faremo più transazioni con le vostre aziende pubbliche fino a quando Finmeccanica resterà nella lista nera». Anche per fare dimenticare l’onta subita, Finmeccanica cambia nome: diventa Leonardo. Tre anni dopo, la Cassazione proscioglie però Orsi da ogni accusa, che commenta avvilito: «In nessuna parte del mondo si sognano di mettere in galera il presidente della più importante industria del Paese se non si hanno motivazioni più che provate».

Da noi, invece, si parte sempre in quarta. La lista è sterminata. E non ci sono solo multinazionali. Lo scorso settembre, tanto per limitarci all’ultimo caso, sono stati assolti gli otto imputati dell’inchiesta sull’impianto biogas di Verdi Praterie, società del gruppo Marrelli di Crotone. È guidato da Antonella Stasi, ex vicepresidente della Calabria per il Pdl. L’indagine per traffico illecito di rifiuti era stata coordinata da Nicola Gratteri, venerato paladino antimafia, adesso procuratore capo a Napoli. Tre anni e mezzo dopo, rivela Stasi, l’azienda è distrutta: impianto chiuso, licenziamenti e debiti. Chi paga? Nessuno. Il nostro ordinamento non contempla il risarcimento dei danni a un’azienda. Esiste invece una norma per l’ingiusta detenzione. In trent’anni, lo Stato ha sborsato quasi un miliardo di euro in risarcimenti, per oltre 30 mila casi. La relazione in parlamento del guardasigilli, Carlo Nordio, non conferma solo l’irreversibile, ma pure l’ineluttabile: nessuna toga viene mai punita. Dal 2018 al 2023 sono state indennizzate ben 4.368 persone, con quasi 194 milioni di euro. Negli stessi cinque anni sono state avviate 87 azioni disciplinari contro magistrati, un numero irrisorio se paragonato al numero degli errori giudiziari. Gli esiti, per giunta, sono sconfortanti: 44 archiviazioni, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento e 7 procedimenti ancora in corso. Insomma, le toghe non sbagliano mai. E vengono pure ben risarcite nei rarissimi casi in cui sono loro le vittime. Il 24 settembre scorso la Corte d’appello di Milano ha riconosciuto un indennizzo di 48 mila e 800 euro a Pasquale Longarini, attuale giudice civile di Imperia, per aver trascorso 61 giorni agli arresti domiciliari da innocente. Nel 2017 lo accusano di pressioni indebite su un imprenditore di Courmayeur, per far affidare a un amico le forniture alimentari di un lussuoso albergo. Seguono domiciliari, gogna, processo, assoluzione. Una sequela di ingiustizie che lo accomuna a tanti cittadini, che però sono stati meno fortunati. Ogni giorno ai domiciliari viene risarcito con 117 euro, raddoppiati in caso di carcere. Nel caso dell’ex pm aostano, la cifra è stata moltiplicata per sette. Totale: quasi cinquantamila euro, appunto. Sia chiaro: nessuna cifra può ripagare un infamante arresto, che sia di un pm o di un povero diavolo. Però è l’ennesima dimostrazione: la legge non è sempre uguale per tutti, specie se ci sono di mezzo le toghe. Stefano Binda, assolto lo scorso settembre dall’accusa di avere ucciso Lidia Macchi, ha ricevuto 212 mila euro per 1.286 giorni dietro le sbarre. Qualche mese prima, era stato invece quantificato il primo indennizzo del più eclatante errore giudiziario della storia: 28 mila euro, per aver scontato l’ingiusta pena in celle minuscole e sovraffollate. Beniamino Zuncheddu, ex pastore di Burce, è rimasto in carcere 33 anni da innocente, dopo essere stato condannato all’ergastolo per la strage del Sinnai. È stato assolto lo scorso gennaio. Tornato nel suo paesino sui monti del Sarrabus, adesso tenta di ricominciare una vita interrotta nel 1991. Non c’erano i telefonini, allora. E nemmeno l’euro. Musk, futuro dileggiatore delle toghe italiche, studiava all’università.Ora il pastore sardo aspetta il vero risarcimento per la sua interminabile detenzione. Sarà milionario, dicono. Intanto, s’accontenta di giocare a carte con i ritrovati amici del bar: «Speriamo solo che non mi facciano aspettare altri trentatré anni».

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