News
August 17 2018
Caro direttore, le scrivo per palesarle un dubbio, un’incertezza, un pensiero che martellano il mio animo di trentenne turbato. Assisto e leggo spesso di storie che mi fanno molto riflettere. Giovani, anche giovanissimi, celebrati perché artefici di imprese che definirei "le gesta eroiche dei nostri tempi".
C’è chi a 29 anni è miliardario con tre start-up alle spalle, chi si distingue nello sport o chi diventa una star per le sue opere in cucina. Lungi da me la critica verso costoro… anzi chapeau.
Quel che mi turba è il fatto che esistano persone come me, in grado di poter fare "quasi" tutto e che finiscono per non specializzarsi. Approfondendo testi di Bob Dylan e cresciuto con le parole di Fabrizio De André e George Brassens, ho concretizzato provandola sulla mia vita la teoria della pietra rotolante. Penso ci siano due macro-tipi di esseri umani: coloro che mi piace identificare come le pietre fisse/statiche e quelli, invece, che il termine rotolante sembra calzarci a pennello.
I tipi pietre fisse son tutti quelli che si specializzano in qualcosa, in qualsiasi ambito. Poi ci sono io e quelli che definisco le "pietre rotolanti". Mai avuto problemi a scuola, ottimi voti in tutte le discipline… mens sana in corpore sano.
Qualsiasi cosa c’era da studiare mi prefiggevo il piccolo obiettivo e lo raggiungevo. Avrei potuto fare tutto nella vita ma non mi piaceva la singola specializzazione, i miei idoli erano personaggi del passato eclettici.
Il Leonardo che si è distinto dall’anatomia alla scultura, dai calcoli matematici alla pittura, dalle macchine da guerra a chissà quali cose che non sapremo mai e che resteranno celate nella sabbia del tempo e dell’oblio.
Dopo aver raggiunto un obiettivo devo cambiare settore e iniziare una nuova scalinata. Le pietre rotolanti son quelle pietre che "mosse" da diversi interessi rotolano appunto in diverse direzioni.
Per quanto ci sia in questo un non so che di affascinante e avventuriero tutto ciò cozza con con una società che ha paura del diverso, con un datore di lavoro che non vuole mine vaganti (per quanto potrebbero essere galline dalle uova d’oro se canalizzati bene e dando loro lo spazio d’espressione che necessitano).
Quelli come me vivono sempre turbati, con l’ansia che il tempo non sia sufficiente e che una vita non basti per cogliere tutti i frutti della conoscenza e dell’empirismo.
Dopo il liceo scientifico fortuitamente mi sono iscritto alla facoltà di Chimica e tecnologia farmaceutiche perché mi affascinava combinar gli elementi e farli reagire. Ho conseguito la laurea, ho fatto anche un periodo di ricerca all’estero. Non ero contento. Mi mancava la gente, mi mancava il contatto umano e allora decisi di fare il farmacista.
Di contatto umano ne avevo e pure troppo. Mi son reso conto però che il mio ideale d’esser d’aiuto per il prossimo cozzava un po’ con le logiche economiche di datori di lavoro. Ho continuato a esercitare ma non mi sentivo appagato completamente e pertanto mi sono iscritto alla facoltà di Antropologia. Ho seguito i corsi, ho fatto esami e anche ricerche sul campo.
Tutto affascinante, tutto bello ma tutto così inevitabilmente "da consumarsi preferibilmente entro…". Ho cambiato lavoro, sono entrato in un’azienda dove mi occupavo di formazione. Ottimo impiego, colmava il mio ego di oratore, di palchi, di aule, di gente da formare. Non mi piacevano alcune dinamiche aziendali e come spesso accade… diventai scomodo.
Ora vivo pianificando mese per mese. Non son soddisfatto, almeno fino a quando non mi si paleserà una nuova sfida dove tuffarmi a capofitto. Sono ambizioso certo, forse un giorno diventerò ministro della salute e modificherò molte incongruenze del sistema sanitario italiano ma per ora resto un sognatore che non si accontenta di nulla. Ho sempre invidiato un mio compagno di scuola che sapeva già cosa fare da grande. Io cambiavo idea a ogni spuntar del sole.
Spesso scrivo, spesso quegli scritti li trasformo in canzoni per renderli immortali. Un senso di vuoto però è il risvolto della medaglia di ogni traguardo.
Rocco De Bona
Caro Rocco, non credo che lei sia solo. Forse un po’ tutti osservando la vita e gli spunti che offre vorremmo fare tutto e sapere tutto. Perché specializzarsi se tutto è speciale?
Al liceo avevo un compagno davvero bravo che veniva da un paesino dell’entroterra siciliano. Divorava i libri con una velocità e una voracità che rare volte ho visto, capiva i testi politici-economici più astrusi, conosceva tutta la letteratura. I professori lo chiamavano in cattedra per integrare le loro lezioni. Con quella sua voracità bruciò le tappe e decise di diplomarsi con un anno d’anticipo. Non pago, mi disse che sentiva di aver approfondito a tal punto le materie umanitarie che volevo occuparsi di quelle scientifiche. Studiò fisica e ingegneria. Trovò subito impiego e già negli anni Ottanta mi raccontava di telefoni cellulari quando nessuno ne possedeva uno.
Ora vive in Francia e lavora per una multinazionale di telecomunicazioni che mette cavi sottomarini. Lui che voleva sapere tutto si è ultra specializzato. A dimostrazione di quel di cui mi sono col tempo convinto: che tutto può stare in una cosa, che ogni mestiere può contenere tutto.
Mio padre era un architetto. Quando gli raccontavo del mio lavoro di giornalista, ascoltava e poi diceva: in fondo facciamo lo stesso mestiere. Pensava che progettare un edificio o una città somigliasse a progettare un giornale. Scrittura, titolazione, grafica, fiuto per la notizia gli ricordavano i suoi calcoli, i suoi disegni le sue soluzioni architettoniche e urbanistiche. Il suo lavoro diventava un edificio, il mio l’edizione del giornale.
Io ho stressato il concetto di mio padre pensando che in fondo facciamo tutti lo stesso mestiere, che ogni mestiere li contiene tutti nel senso che è un pezzo del tutto.
In ogni attività intellettuale ci è richiesto di trovare una soluzione e se vogliamo essere bravi dobbiamo sforzarci di trovare la soluzione migliore.
Arrivo a dire che vale anche per i lavori cosiddetti manuali, anche in quelli possiamo metterci il valore aggiunto del nostro impegno, del nostro intuito e fare miglioramenti.
Dobbiamo fare quel che ci piace ma sopratutto dobbiamo farlo bene. Vale appunto per il fisico come per il tassista, per l’ingegnere come per il barman, per l’operaio come per il manager. Per me la vera differenza è tra chi fa bene il proprio mestiere e chi no, qualunque sia quel mestiere. Fare bene una cosa dando il meglio di sé è come farle bene tutte.
Anch’io da ragazzo ero un po’ come lei. E quando lessi il romanzo di Gustave Flaubert Bouvard e Pecuchet mi divertii moltissimo a immedesimarmi nei due protagonisti che si cimentavano in ogni cosa per quanto generalmente li si canzoni. E le confesso che mi iscrissi a Scienze politiche perché era il rifugio di chi non sapeva scegliere.
Ricordo che puntai sul giornalismo più per la stessa ragione che per una passione profonda. Ci pensai per caso, una notte in cui ero più confuso del solito sul mio futuro. Entrai nella stanza dei miei genitori e nel buio dissi semplicemente: "E se se facessi il giornalista?". Papà nel dormiveglia rispose: «Perché no?».
Cominciò così. Ma quella mia idea romantica e vaga di un mestiere visto come un’infarinatura di tutto si infranse sulla realtà. Fare un buon titolo, scrivere bene un articolo, capire una notizia, vedere i dettagli più interessanti tra le pieghe del fatto, è una specializzazione. E per imparare a farlo bene ci vogliono impegno e pazienza.
Questi ragionamenti mi hanno portato oggi a pensare quel che non pensavo da ragazzo e cioè che tutti i mestieri hanno un fascino, che tutti i mestieri sono quello che riusciamo a metterci dentro.
Provi a guardare il lavoro in quest’ottica. Per appagare la sua sete generalizzata non ha bisogno di fare tutto, le può bastare fare bene una cosa. Le difficoltà fanno parte del gioco, resista. Magari in quella cosa troverà il tutto che cerca.
raffaele.leone@mondadori.it
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero 35 di Panorama in edicola il 15 agosto)