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Fu giustificato o no il rapimento del 2003? Il caso Abu Omar diventa un documentario

È 17 gennaio 2003. Un uomo cammina accanto al marciapiede in una strada del centro di Milano. Ha una barba folta e nera, sulla testa porta un kufi da preghiera e indossa la tipica jalabya chiara dei religiosi islamici. In effetti, l’uomo è l’imam della moschea di via Quaranta. Ha 40 anni e si chiama Hassan Mustafa Osama Nasr, però ha anche un altro nome, «di battaglia»: Abu Omar. Pochi minuti dopo, un furgone bianco si avvicina e l’uomo con la barba nera scompare.

Inizia così il caso Abu Omar, il primo e unico sequestro di persona di cui la Cia sia stata accusata: la Procura di Milano accuserà i servizi segreti americani di aver condotto la «extraordinary rendition» (prelievo straordinario) di un sospettato di terrorismo. Un caso complicato, appassionante e terribile, nel quale Abu Omar è la vittima: l’imam infatti accuserà la Cia di averlo rapito per trasportarlo in Egitto e qui sottoporlo a indicibili torture tese a scardinare una rete terroristica. Ma Abu Omar è insieme un colpevole, in quanto nell’ottobre 2015 è stato effettivamente condannato dalla Corte di cassazione italiana a 6 anni di reclusione per terrorismo internazionale.

Da lunedì 5 febbraio la storia di Abu Omar arriva nei principali cinema italiani sotto foma di un lungo film-documentario, «Ghost Detainee, il caso Abu Omar», scritto e diretto da Flavia Triggiani e Marina Loi in collaborazione con Luca Fazzo. Il documentario racconta la vicenda e pone interrogativi fondamentali, che attengono a valori senza tempo: nella lotta contro il crimine e contro il terrorismo, qual è il limite oltre il quale uno Stato democratico non può spingersi? Dove finisce il diritto del singolo, e fin dove può arrivare uno Stato che voglia garantire la sicurezza dei suoi cittadini?

II film lascia parlare i protagonisti della storia: dallo stesso Abu Omar, che oggi ha 61 anni e vive in Egitto, e per la prima volta racconta la sua versione dei fatti. Parla il generale Nicolò Pollari, all’epoca capo dei servizi segreti militari. Vengono intervistati l’ex pubblico ministero Armando Spataro, che istruì l’inchiesta, così come Daria Pesce, la nota penalista milanese che assunse la difficile difesa dell'ex capo della Cia a Milano, Robert Seldon Lady. Ma nel documentario parla – e lo fa da vero protagonista - anche il segreto di Stato, che di questa vicenda ancora oggi copre tanti elementi e documenti.

«Noi non abbiamo una tesi precostituita», sostengono le due autrici. «Abbiamo cercato di rappresentare tutte le opinioni per far sì che lo spettatore si faccia la sua idea. Anche per questo abbiamo deciso d’intervistare Abu Omar ad Alessandria d’Egitto. Volevamo far sentire dalla sua voce, il racconto del rapimento, della carcerazione in Egitto e delle torture».

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