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February 06 2017
È una bonifica del territorio e non solo un esempio di comando. A Caserta il direttore Mario Felicori sta scacciando le mosche che avevano aggredito il corpo della Reggia.
Infestanti e compatti come gli insetti, il solito popolo di parassiti, che divora i beni culturali, aveva assalito appartamenti, imbrattato scale, inquinato parchi, molestato turisti. Negli anni la Reggia è stata infatti il riparo di profittatori, malversatori, pataccari e accattoni, tutto un underground che anche l’architettura ha rigettato ed espulso. Il palazzo ha iniziato a sgretolarsi tanto per la stanchezza degli stucchi quanto per l’insostenibile rapina che ha lesionato la resistenza.
«Non c’erano solo gli abusivi che assediavano e inseguivano i visitatori, ma anche gli inquilini che dentro la Reggia parcheggiavano». Chi erano? «Ex custodi, ex dipendenti. Anche ex mogli. Si erano separati dal marito ma non divorziavano dalla Reggia» dice Felicori che un giorno li ha sorpresi tutti non per avere annunciato lo sfratto ma per averlo fatto rispettare. Concessi dalla Sopraintendenza, che in passato aveva la tutela del sito, 15 appartamenti della Reggia sono stati legalmente occupati al tempo dell’equo canone all’iniquo costo di 3,51 euro al mese. I residenti possedevano le chiavi dell’intera Reggia, cancelli e porte, che nel tempo sono state duplicate, smerciate, regalate e solo oggi sostituite.
Dentro il più imponente palazzo fatto edificare da un sovrano hanno avuto accesso pure i becchini. Le pompe funebri hanno trasportato via la salma di un inquilino che un po’ di paradiso aveva già avuto modo di osservarlo in terra. «Di sicuro è il primo custode che sia morto nelle stanze di un re» dice Enzo Zuccaro, responsabile della comunicazione della Reggia da più di trent’anni e che dunque potrebbe compilare la storia della mala-amministrazione italiana, disegnare l’atlante delle bizzarie museali.
Sconvolto dalla maestosità e dagli spazi (1200 appartamenti, 34 scale, 5 piani, 2 sotterranei e 4 cortili interni) negli anni lo Stato ha convertito la corte dei Borbone in una sorta di Pentagono. Dal dopoguerra in poi due terzi della Reggia sono stati assegnati all’accademia dell’aeronautica militare, il resto alla scuola dell’amministrazione, ai Nas, ai carabinieri a cavallo, alla Guardia di Finanza, ai Ros… Più che una Reggia sembrava un bunker.
Raccontano pure che qui un comandante dell’aeronautica si fosse trovato a fare i conti con la propria solitudine dentro un appartamento di mille metri quadrati tra i preziosismi progettati da Luigi Vanvitelli e il pavimento in travertino. Dato che in Italia il privilegio è commisurato ai gradi, al vicecomandante era toccato un altro appartamento di soli “500” metri quadrati. In due abitavano un intero piano nobile. «Ma grazie all’accordo fra il ministro della Cultura, Dario Franceschini e quello della Difesa, Roberta Pinotti, nel 2020 i militari usciranno e la Reggia sarà interamente un sito culturale» assicura Felicori, direttore da 15 mesi dopo la riforma voluta appunto da Franceschini che ha trasformato la Reggia in un museo autonomo dotandola di una guida riconosciuta e di funzioni definite.
Felicori ha 64 anni. È un bolognese dal fuoco in corpo, fronte alta e piedi stretti, ma è anche un allegro malinconico che chiacchiera per dissimulare, sorride per non scoprirsi. Dice di sentirsi pure «bassino» come Leo Longanesi, altro emiliano, che considerava la statura minuta come una disubbidienza e una vocazione alla lotta. Non appena annunciata, la nomina di Felicori è stata contestata dagli accademici e infine accettata ma solo per eccesso di sciagura. Per il critico d’arte Philippe Daverio le condizioni della Reggia erano così disastrose che non occorreva né un manager né un storico, ma un esperto di fognature.
Felicori è invece laureato in filosofia («Con Salvatore Veca e con una tesi su Max Weber») è stato il direttore del dipartimento economico e promozione del comune di Bologna, capo di gabinetto del sindaco Walter Vitali. È di sinistra («Ho militato nel Pci. Sono stato ingraiano») ma conosce il marketing, i bilanci di previsione, le strategie di comunicazione che in Italia sono sempre valutate come lessico di destra: «Nel settore pubblico la parola gestione rimane una bestemmia, essere definito manager è sinonimo di galeotto» riconosce Felicori.
Conservare i beni o produrre entrate? «Un museo è come la Mondadori. La Mondadori è come un museo. Entrambi hanno il diritto di guadagnare così come entrambe di essere considerate istituzioni culturali. E invece sopravvive un’idea quaresimale delle arti. Fateci caso. In Italia non si va a guardare una mostra ma sembra quasi di dover andare a espiare una colpa».
A Felicori è stata rimproverata la conoscenza del management al posto delle pubblicazioni scientifiche che sono quasi sempre testi sconclusionati, scopiazzati, insomma stampa clandestina. Perché? «Si scambia un sito culturale per un centro studi. Eppure in nessuna casa farmaceutica si chiede a un chimico di dirigerla. Nessuna multinazionale che produce calzature è guidata da un calzolaio» confida il direttore.
Di certo nessun luogo italiano aveva bisogno dell’economia gestionale come competenza, nessun museo necessitava di comunicazione più di Caserta. Patrimonio dell’Unesco dal 1997, la Reggia è stata il più eccezionale modello di default turistico, una testimonianza di declino da manuale che viene già studiata dagli specialisti di comunicazione del territorio. Da 1.025.167 visitatori del 1997 si è arrivati a registrare 428 mila turisti nel 2014 che è l’anno del crollo epocale e della fuga.
Claudio Coluzzi nel suo “Comunicare il territorio nell’era digitale” ha ritagliato i titoli dei quotidiani che hanno s-parlato della Reggia. Eccone alcuni: “Reggia, vengono giù anche travi e parteti”; “Caso Reggia, chiude il parco”; “Reggia, chiusa a metà corsa contro il tempo”; “Quanta tristezza quel palazzo”; “Reggia, apertura flop a Natale e anche a Santo Stefano crollano le visite”. E fa già parte del repertorio folkloristico campano, come la smorfia e il sangue di San Gennaro, quel corno rosso, un’installazione dell’artista Lello Esposito alta tredici metri, che l’ex sindaco Pio del Gaudio fece montare di fronte alla Reggia, per proteggerla dalla sventura dichiarò, con l’augurio in inglese: “Good luck, Caserta”.
La verità, come spiega Antonella Diana, responsabile della fruizione della Reggia, è che prima dell’insediamento di Felicori la direzione di questo palazzo è stata il capogiro dei sopraintendenti di Napoli, poi dei funzionari del polo museale regionale, insomma una perfetta miniatura dello sbandamento amministrativo e dell’assenza di indirizzo.
I dipendenti della Reggia non sono quindi trasecolati dall’arrivo di Felicori a Caserta ma dalla sua intenzione di stabilirsi sei giorni a settimana. «La prima domanda che mi venne rivolta fu propria questa: ma davvero vuole venire a vivere qui?» ricorda Felicori che in città ha affittato un appartamento e occupato il suo ufficio. La stanza di Felicori è una sala silenziosa e nuda, è vasta nelle dimensioni ma essenziale nei bisogni. Il direttore ha chiesto solo un armadio, povero e di transito, e due sedie, ma di plastica e di servizio. Le pareti sono bianche e spoglie. Felicori ha disposto che i quadri che adornavano il suo ufficio venissero smontati ed esibiti nelle sale della mostra Terrae Motus, una serie di opere sulla catastrofe che il collezionista Lucio Amelio ha donato a Caserta.
In compagnia del suo lume («Ho scoperto che anche le lampadine erano fulminate») Felicori si trattiene fino alle 21 e a volte pure di domenica «per evadere l’arretrato». Il suo carattere asburgico ha immediatamente spaventato e confuso, il dinamismo e la sua attività cinetica hanno minacciato gli indolenti tutelati, i lazzari del settore pubblico.
Il 4 marzo dell’anno scorso i rappresentati sindacali dei 230 dipendenti, di cui 150 custodi, hanno spedito quella lettera da commedia dell’assurdo che ha rivelato Felicori al mondo ma che ha finito per demolire i sindacati. «Si lamentavano che lavorassi troppo e che a causa mia fossero costretti a vigilare l’ala degli uffici al posto delle sale» spiega Felicori che subito dopo quest’episodio, e questo nessuno lo ha scritto, è stato chiamato dal ministero per quello che viene definito un «tavolo di raffreddamento» fra direttore e dipendenti. «E proprio non capisco di cosa dovrei pentirmi e cosa raffreddare» si chiede ancora oggi il direttore. Avvistata da Matteo Renzi, la lettera si è mutata in un manifesto di politica, è diventata il tweet virale: “A Caserta è finita la pacchia”.
La Reggia ha così ottenuto, grazie alla stoltezza di qualche sindacalista, una pubblicità gratuita e una popolarità clamorosa. Neppure Oliviero Toscani, che ci ha spiegato il valore economico della provocazione, avrebbe immaginato questa anti-denuncia che è autentica e spontanea, un caso di pubblicità formidabile. «E però se non ci fosse stato un cronista de Il Mattino che la segnalasse e Renzi che la rilanciasse, quella battaglia l’avrei persa. La pigrizia è una condizione umana che si trasmette come le virulenze» è convinto Felicori che da quella lettera è stato travolto, ma che alla fine ha anche stravolto l’immagine della Reggia. A Caserta hanno cominciato a telefonare il Nyt, il Washington Post, perfino un giornale indonesiano, rivela Giusy Capri che si occupa di contenziosi legali, ma anche di comunicazione «che facciamo in quattro. Mentre per il bilancio non abbiamo una figura specifica ma un funzionario che ci aiuta».
La Reggia, nei 15 mesi di direzione Felicori, nel 2016 è stata percorsa da 681 mila turisti, + 37,9 per cento rispetto al 2015, gli incassi incrementati del 105 per cento. Oggi è tra i dieci siti più visitati d’Italia, al nono posto, secondo le statistiche del Mibact e Felicori è stato indicato come migliore direttore dell’anno dalla rivista specializzata Artribune. «Ma la Reggia non l’ho ancora cambiata. Paghiamo le inefficienze. Qui l’ordinario è faticoso. I bagni da pulire sono quasi un restauro, gli ascensori sono da ripristinare, i giardinieri prima da formare e poi da impiegare» spiega il direttore.
Per sottrarre il parco alla natura selvaggia che la minaccia, la Reggia ha a disposizione solo due giardinieri che devono dominare 130 ettari di verde. Per tagliare le siepi di fronte all’ingresso del parco, nella piazza che è di competenza comunale, non sono bastate le cesoie ma si sono resi necessari i trattori della Coldiretti che, su chiamata del direttore, si sono offerti di sfrondare.
Felicori è riuscito a dilatare l’apertura del sito rimodulando i turni dei custodi. Ha intenzione di aprire il martedì, finora giorno di chiusura. Ha tolto il biglietto gratuito per gli over 60 e strappato alle ferrovie le locomotive elettriche E-626 che da gennaio hanno cominciato a percorrere i binari da Napoli a Caserta. Sta per riaprire il Teatro di Corte e allestire in futuro un ostello. Per la prima volta ha imposto la divisa ai dipendenti che si mimetizzavano con i turisti: «Ma prima di chiedere di indossarla bisogna sapere quando è stata l’ultima volta che gliela abbiamo fornita».
Scesi nel corso del tempo da 500 a 230, i dipendenti sono stati infatti ereditati dalla Reggia come le tele dei vedutisti sono state lasciate dai Borboni. Come tutti i musei del Sud, anche Caserta esplode di uscieri ma è scarsa di professionalità indispensabili: vivaisti, botanici, informatici, contabili, esperti di social. Per reclutarli, Felicori, ha dovuto rivolgersi al ministero. Dopo un anno non ha ancora ricevuto risposta. «Bisogna fare un interpello, attendere che qualcuno presenti una domanda e decida di traferirsi. Le Coop impiegano un minuto per spostare un dipendente facendo il bene di entrambi. Il settore pubblico è invece rimasto l’unico sistema feudale in un mondo dove l’economia è aperta». Felicori adora il pensiero radicale, il coraggio della contraddizione, legge i testi di Marx, «quelli del capitalismo generatore», è figlio di un tranviere e forse per questo possiede nel suo patrimonio i geni del movimento.
Caserta ha accettato questo direttore e non lo ha rigettato come aveva fatto in passato con Vanvitelli che qui, racconta Nando Astarita in “Caserta dei Borbone” (Artetetra Edizioni) si ammalò ai reni e si guastò la salute a causa delle angherie che fu costretto a subire. Felicori è stata la scossa tellurica che non ha distrutto ma semmai rigenerato la città, è stato il contagio del buonumore contro le scorie dello scetticismo. Da direttore non ha ancora cambiato la Reggia ma ha cambiato l’aria, non ha avvicinato Caserta all’Europa ma ha collegato Caserta e la Reggia che sempre si sono frequentati ma a distanza e con disincanto. È quel sentimento che lo scrittore Antonio Pascale ha cercato di spiegare nella sua “La città distratta”: «La Reggia è stata il monumento e come sempre in Italia i monumenti rimandano al cimitero, all’inutilità. Per noi casertani è stata più una scintilla letteraria che un bene da possedere. Come la siepe di Leopardi: più la guardavamo e più volevamo superarla». La Reggia è così servita ai casertani a giustificare il loro scontento, ad accrescere quell’inquietudine provinciale che provano gli esclusi dalla geografia e che Francesco Piccolo, altro casertano, ha sintetizzato nella frase scorciatoia: «Caserta se stava in Francia era più famosa di Versailles».
E invece spolverata da Felicori, Caserta non è più famosa di Versailles ma è ancora prima per dimensioni. Non esagera nelle attività ma è discreta negli obiettivi. È timida nelle ambizioni e per questo già smisurata nei progetti. Proprio oggi che è tornata modesta la Reggia si è scoperta reale.