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January 20 2014
Non è la prima volta che un leader della sinistra italiana viene accusato dai suoi di essere un traditore. È accaduto, e sta accadendo, a Matteo Renzi, reo - con il faccia a faccia in Largo Nazareno - di aver rivitalizzato Silvio Berlusconi quando la sua parabola politica sembrava sul viale del tramonto.
È accaduto ad Achille Occhetto, il segretario che nel 1991, dopo il crollo del Muro di Berlino, decise con la svolta della Bolognina di rottamare simbolo e nome del Partito comunista. È accaduto a Massimo D'Alema con la Bicamerale nel 1997, quando con Berlusconi all'angolo e Prodi in sella aprì un tavolo delle riforme istituzionali che si concluse con il peggiore degli esiti possibili: un pugno di mosche (per loro, gli ex comunisti) e Berlusconi lanciatissimo, dopo la caduta di Prodi, verso la vittoria nel 2001.
È accaduto a Veltroni, a Violante, persino a Bersani che, durante il voto per l'elezione del presidente della Repubblica, fu immortalato dai fotografi mentre in parlamento metteva una mano sulla spalla ad Angelino Alfano. Anche allora - anche nei confronti di un leader integerrimo come Bersani - si sprecarono le ironie, i distinguo, i mal di pancia, le velate accuse di tradimento, gli psicodrammi di una base parte della quale è stata allevata da Enrico Berlinguer al mito della propria diversità, della propria alterità culturale e morale rispetto ai nemici di sempre. Renzi è insomma solo l'ultimo dei leader della sinistra che - per aver cercato un accordo con l'avversario - trova sulla sua strada il fuoco di sbarramento di militanti, elettori e uomini e donne di sinistra allevati in tutto il dopoguerra a coltivare il mito della purezza e dell'autosufficienza.
Sbaglierebbe chi pensa, però, che il segno infamante del tradimento abbia marchiato solo i leader del centrosinistra della seconda Repubblica. E non vogliamo nemmeno, per tornare al mito delle radici, scomodare i processi staliniani di Mosca contro i «deviazionisti di destra» come Bucharin e gli anatemi ideologici contro i «deviazionisti di sinistra» come Trotzky. Ma è utile ricordare quello che accadde a Enrico Berlinguer quando, per commentare il golpe cileno di Augusto Pinochet sovvenzionato dalla Cia, scrisse su Rinascita quattro articoli che di fatto aprivano all'ipotesi della collaborazione tra le grandi forze popolari italiane, Dc e Pci e mettevano in soffitta l'altro mito - quello dell'alternativa di sinistra - su cui si erano formati tutti i dirigenti del Pci degli anni 60 e 70.
«Spia berlingueriana» divenne in quegli anni l'anatema con cui - negli anni del primo governo di unità nazionale tra Dc e Pci - i brigatisti, il cui gruppo storico nacque nel Pci reggiano, arrivarono a marchiare i comunisti rei di essersi accordati con la Dc di Andreotti. Ne fece le spese persino un sindacalista della Cgil, quel Guido Rossa, che a Genova aveva osato sfidare in fabbrica i militanti armati. E come non ricordare la famosa cacciata di Luciano Lama dall'Università Sapienza di Roma nel 1977, quando gli studenti del movimento salutarono i «compagni» della Cgil con una sassaiola e quel «I Lama sono in Tibet» che campeggiava sui muri delle università? O ancora, per venire al 1992, chi non ricorda i bulloni operai che accolsero nelle piazze i dirigenti della Triplice che avevano firmato un accordo che poneva un freno alla crescita del costo del lavoro? E che cosa accadde a Genova nel 2001, quando la diserzione dei sindacati (Fiom esclusa) e dei Ds approfondì il solco tra le nuove generazioni e il partitone ex-rosso?
Non che Matteo Renzi abbia alcunché da temere. Il dissenso contro il partito non è mai stato così limitato come oggi nell'opinione pubblica di sinistra, ormai anestetizzata - anche nelle sue frange più radicali - da troppi anni di convivenza con il centrodestra e dall'assenza di organizzazioni politiche in grado di incanalare a sinistra il dissenso contro il Pd. Ma il tradimento continua a essere la categoria-principe con cui viene analizzato anche questo passaggio. Certo, a differenza di quanto è accaduto al Pci e alla Cgil, il rischio è oggi solo quello della diaspora, del rifugiarsi nella protesta grillina, dello svuotamento elettorale del partito. Ad attendere i «traditori» come Renzi insomma non ci sono più sassi, bottiglie molotov o bulloni, come un tempo, ma i piccoli e grandi eserciti che, il giorno del voto, scelgono di disertare per marcare la loro berlingueriana diversità. E un rischio che Matteo Renzi sa di dover correre se l'Italia non vuole essere consegnate alle larghe intese perenni. Lo ha confidato anche a Silvio Berlusconi nella sede di Largo Nazareno, sotto la fotografia di Fidel e il Che che giocavano a golf: «Io, presidente, su questa cosa, mi gioco l'osso del collo» (PP)