Le pietre del duomo di Venzone nel 1976, riordinate e numerate una a una in vista della ricostruzione. Nel riquadro, Sandro Fabbro. (F.Doglioni/Mibact)
Politica
January 25 2022
Le pietre del duomo di Venzone nel 1976, riordinate e numerate una a una in vista della ricostruzione. Nel riquadro, Sandro Fabbro. (F.Doglioni/Mibact)
«Il Pnrr rischia di fallire, ma c'è un approccio che potrebbe salvarlo: il Modello Friuli». Dall'estremo Nord Est, il professor Sandro Fabbro, docente di Urbanistica all'Università di Udine, lancia una proposta per sfruttare al meglio la straordinaria opportunità che ci sta offrendo l'Unione europea. L'idea è semplice: visto che la ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1976 è unanimamente considerata un esempio di successo, può essere di insegnamento per la ricostruzione post pandemica che l’Italia si trova ad affrontare con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. In sostanza, spiega Fabbro, «il Modello Friuli come patrimonio collettivo della storia italiana contemporanea e ricca fonte di ispirazione per il governo delle emergenze e l’indirizzo delle ricostruzioni post-disastro anche se non basate su macerie fisiche”».
Membro del Direttivo dell’Istituto nazionale di urbanistica e presidente dell’Associazione per la Terza ricostruzione, Fabbro ha illustrato in un libro, intitolato Il modello Friuli di ricostruzione, pubblicato nel 2017 da Forum Editrice, come è stata affrontata la ricostruzione insediativa, conclusa nell'arco di 10-12 anni. Un approccio che ha raccolto i plausi del presidente Sergio Mattarella, che il 20 feb 2016 a Trieste ha citato «quel Modello Friuli che con orgoglio rivendichiamo e allo stesso tempo vogliamo mostrare e illustrare a tutto il Paese», e del Senato della Repubblica, che nel Documento di analisi numero 7, intitolato Terremoti, nell'agosto 2017 ha definito la reazione ai terremoti friulani del 1976 «celere ed esemplare», dopo aver detto che «la popolazione reagì al disastro in maniera molto attiva».
E proprio lo stesso approccio potrebbe evitare la deriva potenzialmente fallimentare del Pnrr, che metterebbe a rischio i 200 miliardi di euro previsti per l'Italia. «Il problema, oggi, è la mancanza di progetto del soggetto pubblico e privato, che deriva da una più generale crisi di pensiero politico e di valori di etica pubblica. Il Pnrr vede lo Stato centrale come principale protagonista delle decisioni di allocazione delle risorse. Poi vengono i Comuni e le città metropolitane, infine le Regioni» osserva il professor Fabbro. «La gerarchia è quella classica, con l'aggiunta di un minor ruolo alle Regioni e un rapporto diretto Stato-Comuni. È, né più né meno, una variante delle gestioni commissariali post-disastro che domina in Italia da decenni e che funziona nelle prime fasi dell’emergenza ma che poi va a sbattere nell’inefficienza e inefficacia delle “ricostruzioni” calate dall’alto».
Perché i fondi del Pnrr sono a rischio?
«Se il Pnrr non riesce a coinvolgere gli enti territoriali, non solo rendendoli attuatori, ma anche politicamente e culturalmente responsabili delle loro scelte e dei loro progetti, il rischio è che molti Comuni non facciano proposte o facciano inadeguate e che queste proposte inadeguate siano poi bocciate. E quindi non finanziate. Se queste proposte inadeguate sono tante, rischiamo di di fallire gli obiettivi e perdere bei pezzi di Pnrr, nel senso che potrebbero non essere finanziati dall'Unione europea. Mi riferisco soprattutto alla parte che verrà realizzata dai comuni».
Che, sul totale dei 200 miliardi di euro, a quanto equivale?
«Circa 70 miliardi. Gli enti territoriali nel loro complesso dovranno spendere direttamente nei prossimi due anni un terzo del totale del Pnrr. Ma non è tutto. Le faccio un altro esempio: se i soldi arrivano a Ferrovie dello Stato, Ferrovie dello Stato ha l'apparato tecnico per progettare e realizzare le opere in poco tempo. Ammesso però che il territorio gliele faccia fare in poco tempo. Perché non è detto che un'opera che interviene sul territorio in maniera pesante non possa poi trovare un'opposizione dal territorio stesso. Val di Susa docet, in questo senso».
Quindi il territorio è cruciale.
«Esatto. Il coinvolgimento del territorio ha un doppio significato. Da una parte lo responsabilizzo nel fare le opere, perché gli chiedo di partecipare al progetto delle opere, dove le vuole fare e come le vuol fare. E qui c'è tutto il senso del modello Friuli. Ma dall'altra parte, responsabilizzo il territorio su scelte più ampie che riguardano la trasformazione e lo sviluppo del territorio stesso».
Scelte che non vengono percepite come calate dall'alto...
«È questo il punto nodale: evitare il rischio che il Pnrr venga visto come una gragnuola di sassi che arriva dall'alto e non un'opportunità per i territori».
Per scongiurare questo rischio lei porta ad esempio il Modello Friuli. Ma che cos'è esattamente?
«Il modello Friuli è un processo di ricostruzione, dopo il terremoto del 1976, realizzato con una forte partecipazione del territorio, un modello decentrato verso il basso. E per certi aspetti anche rovesciato, nel senso che la decisione va dal basso verso l'alto. Sono i Comuni che decidono dove e come ricostruire, chiedendo alla Regione i piani e gli indirizzi per ricostruire. E la Regione a sua volta chiede allo Stato le risorse per ricostruire. In quest'ottica è un modello di sussidiarietà verticale, dove si parte dal livello più vicino ai cittadini, poi si risale alla Regione e infine allo Stato. Quindi ognuno fa la sua parte, a partire dal livello più basso. Questa è la governance, diremmo oggi, del modello».
Come è nato questo modello?
«È nato da un fatto apparentemente aneddotico, che vede il presidente del Consiglio dell'epoca, Aldo Moro, chiedere all'allora presidente della Regione Antonio Comelli, ambedue democristiani, morotei, cattolici, giuristi, con forte spessore culturale, se riteneva che la Regione fosse in grado di governare da sola il processo. Comelli rispose affermativamente e l’idea della delega si trasformò negli articoli 1 e 2 del decreto legge 227. Il senatore carnico Diego Carpenedo dà due spiegazioni di questa storica decisione di Aldo Moro, che, notoriamente non amava le improvvisazioni. La prima discende probabilmente dalla necessità di cambiare, di battere strade nuove, con la ricostruzione friulana, anche a tutela del buon nome dello Stato, dopo l'esito infelice del Belice. Una seconda ragione è certamente rintracciabile nella fiducia reciproca tra Aldo Moro e la Regione, all'epoca la più morotea d’Italia».
Quando avvenne quest'incontro con Aldo Moro?
«In un giorno fra il 7 e il 12 maggio. Probabilmente il 10 maggio».
Quindi subito: quattro giorni dopo il terremoto.
«Subito, subito. Tenga conto che la mattina del 7 maggio, poche ore dopo il terremoto, il Consiglio dei ministri aveva nominato Giuseppe Zamberletti commissario straordinario del Governo. E che il 12 maggio venne approvato il decreto legge 227 (convertito nelle settimane successive nella legge 336), che conteneva i provvedimenti urgenti e la delega alla Regione Friuli Venezia Giulia per la ricostruzione».
Tempi supersonici, paragonati a quelli attuali...
«Una cosa eccezionale. Questa era la Prima Repubblica, che aveva la capacità di prendere decisioni da far tremare i polsi. Tant'è vero che il buon Antonio Comelli raccontava la vicenda dicendo che la richiesta di Moro lo fece tremare, ma che non poteva non dirgli di sì, perché era una sfida epocale. Una piccola e giovane Regione (era nata 13 anni prima) come il Friuli Venezia Giulia decise di prendersi una responsabilità enorme, perché poteva essere un fallimento ancora più macroscopico di quello del Belice. Invece prende la responsabilità della ricostruzione e la condivide con i Comuni, decidendo che i sindaci diventano dei funzionari delegati della Regione, nel senso che operano per conto della Regione».
Fu un vero decentramento.
«Un decentramento assoluto, come non era mai stato fatto e come mai più tornerà. L'unicum del modello Friuli rimane storicamente collocato in quel modello lì e poi non si verifica più nella sua interezza».
E perché non si verifica più? Perché non è stato replicato, visto che è stato unanimamente considerato un modello di successo?
«Non è stato replicato il nocciolo forte. Sono state recuperate tutte le esperienze tecniche dal punto di vista antisismico, la Protezione civile come fatto di partecipazione volontaristica dal basso... Ma la governance della sussidiarietà verticale e orizzontale, cioè l'integrazione istituzionale multilivello e quella pubblico-privato, non è stata ripresa perché evidentemente non ha trovato sponde politiche e culturali sufficientemente forti per essere riproposto. Rendiamoci conto che all'epoca avevamo uno statista come Aldo Moro. Si è cristallizzata nell'esperienza friulana la miglior tradizione della cultura cristiano-sociale».
Di fatto c'è stato un regresso...
«Dopo la Prima Repubblica, la politica ha perso peso. Sia a destra sia a sinistra: gli effetti della lunga deriva dell'antipolitica li stiamo vedendo in questi anni».
Ci sarebbe adesso l'occasione per replicare il Modello Friuli?«Con tutte le cautele del caso, perché parliamo di disastri fisici in un caso e di disastri sanitari e tutt'al più economici dall'altro, collocati in epoche diverse, ci sarebbe. Il Modello Friuli può ispirare un approccio, più che un'applicazione letterale, che non avrebbe senso. L’efficacia degli investimenti del Pnrr sui territori necessita di far coesistere due principi che possono entrare in conflitto tra loro: quello di sostenere le aree più in difficoltà da un lato e quello di premiare i progetti più meritevoli dall'altro. Le aree più in difficoltà sono spesso prive delle risorse umane e degli strumenti per avviare progetti validi e meritevoli di finanziamento. Di conseguenza, molti territori potrebbero rinunciare a partecipare al Pnrr. In questo caso, il Pnrr andrebbe a premiare quelle realtà che già oggi sono più dinamiche e, in particolare dotate di progetti già cantierabili, anche se vecchi. Il Pnrr, quindi, paradossalmente, rischia di acuire ulteriormente i divari territoriali anziché ridurli».
E il Modello Friuli riuscirebbe a ovviare a questi inconvenienti?
«Sì. Un modello aderente ai principi del Modello Friuli consiste nel fatto che, se è giusto che la prima risposta emergenziale spetti allo Stato, poi la delega a “ricostruire” deve passare alle Regioni ed ai Comuni che decidono, sulla base di linee guida generali fissate dallo Stato, dove e come spendere i fondi. Il modello centralistico, viene dunque sostituito da un modello misto e sussidiario».
Quindi un modello decentrato?
«Pur essendo microscopico rispetto alle dimensioni macro che abbiamo davanti, io vedo nel Modello Friuli la capacità di ispirare una forte partecipazione decentrata, dal basso, al progetto di ricostruzione: questo è il senso dell'esperienza del Friuli, che raccoglie tutti gli elementi che servono anche per la proiezione a grande scala. È un piccolo universo di tutto ciò che serve per poi ricostruire».
Non a caso, Ippolito Nievo definiva il Friuli «un piccolo compendio dell'universo».
«Esatto. Lo scrittore parlava degli ambienti e dei paesaggi, ma in questo caso l'esperienza sociale ha le stesse caratteristiche. Io ho sempre visto il Friuli come un microcosmo dove fare laboratorio di processi più importanti».
Ma come potrebbe lo Stato adottare il Modello Friuli?
«Attraverso le Regioni, che potrebbero “rientrare in partita” non tanto spendendo fondi, ma in una logica di responsabilità nazionale. Potrebbero attivare delle Cabine di regia politiche e tecniche che ritrovino un rapporto con i territori. Tutto ciò dando soccorso e coordinamento ai Comuni attraverso quadri di azione strategica e valutazioni preliminari di fattibilità e di compatibilità ambientale, che sarebbero sicuramente utilissimi per evitare, in un secondo momento, di veder cassati i progetti dalla Commissione Europea».
E, concretamente, chi potrebbe farsi promotore di quest'iniziativa?
«Una persona potrebbe esserci: il presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, che è anche l’attuale Presidente della Conferenza Stato-Regione. Oggi Fedriga potrebbe svolgere il ruolo che nel 1976 svolse Antonio Comelli».