Il liceo Dante Alighieri di Roma (Ansa).
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Per il rientro a scuola servono 20.000 aule. Solo per la Lombardia

  • In attesa che il ministero dell'Istruzione presenti le linee guida per la ripresa delle lezioni a settembre, Panorama ha condotto un'inchiesta per capire a che punto è l'organizzazione per riportare in classe i 7.599.259 studenti italiani dopo il Covid.
  • Prima puntata: La carenza di infrastrutture.

«Abbiamo calcolato che a settembre in Lombardia serviranno 25.000 docenti in più, magari solo a tempo determinato». È un grido d'allarme, quello che lancia Tobia Sertori, segretario generale della Flc Cgil Lombardia, il sindacato della scuola che, insoddisfatto delle risposte del ministero in tema di investimenti, l'8 giugno ha indetto uno sciopero con Cisl, Uil, Snals e Fgu.

La stima del sindacalista è frutto di un calcolo matematico: «In Lombardia abbiamo circa 55.000 classi per un milione e 200.000 studenti, dalla scuola dell'infanzia alle superiori» spiega Sertori. «Se dovessimo riportarli tutti a scuola in presenza, saremmo costretti a sdoppiare le classi. Potremmo limitarci ad aggiungerne 20.000. E se poi le classi diventassero 75.000, servirebbero più docenti degli attuali 120.000».

Una preoccupazione condivisa anche nelle altre regioni italiane. A tre mesi dalla riapertura delle aule, il mondo della scuola è in ambasce. E ha gli occhi puntati su Roma, dove ha sede il ministero dell'Istruzione. Ora che sono finiti gli scrutini, presidi, docenti e rappresentati sindacali vorrebbero organizzarsi per il rientro a settembre dei 7.599.259 studenti delle scuole statali. Ma non potranno procedere finché la ministra Lucia Azzolina non presenterà le sue linee guida.

L'annuncio dovrebbe essere imminente, visto che la task force istituita al ministero per la riapertura delle scuole ha già presentato le sue indicazioni. Il 9 giugno, in audizione in commissione alla Camera, Patrizio Bianchi, il coordinatore del Comitato di 18 esperti voluto dalla ministra, ha presentato le proposte da loro elaborate.

Il Comitato ha proposto di riorganizzare le didattica, svolgendola anche in spazi esterni come parchi, strutture sportive o spazi culturali. Ha suggerito di ridurre il numero di alunni per classe. Ha caldeggiato alleanze con le comunità presenti sul territorio, con il sostegno dei sindaci. E ha auspicato l'introduzione di misure per il sostegno agli studenti con disabilità. L'idea di fondo è di ricominciare l'attività didattica in maniera «responsabile e flessibile», con interventi normativi che permettano agli 8.233 dirigenti scolastici italiani di progettare autonomamente l'avvio del nuovo anno.

Indicazioni apprezzate dagli addetti ai lavori, ma che restano lettera morta finché il ministero non dirama quelle «linee guida per riportare gli studenti a scuola, in presenza e sicurezza» su cui il governo sta ragionando, come ha annunciato la ministra Azzolina. Per garantire il ritorno sui banchi di scuola a settembre, il piano d'intervento si dispiegherà su cinque macro-aree: edilizia leggera, dispositivi di sicurezza e protezione, didattica negli istituti e all'esterno, oltre alla formazione di docenti e famiglie.

Nell'attesa che il ministero passi dalle parole ai fatti, Panorama ha cercato di capire come si stanno muovendo le scuole sul territorio, sentendo presidi, docenti, organizzazioni di categoria e rappresentanti sindacali. Un punto condiviso da tutti è che l'esperienza della scuola online deve finire qui. A sostenerlo con forza è Domenico Squillace, il dirigente del liceo scientifico Volta di Milano. Il 25 febbraio il preside aveva commosso l'Italia con la sua lettera aperta agli studenti, nella quale rievocando la peste manzoniana li invitava a «preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità».

Quattro mesi dopo quel messaggio che, con tempestiva premonizione, individuava la sfida posta dalla pandemia, Squillace tira le somme dei mesi passati davanti al computer. «La didattica a distanza pone problemi seri e gravi» spiega a Panorama. «Perché non è democratica, mentre la scuola pubblica deve essere democratica. Per farla bene, lo studente dovrebbe poter contare su due genitori laureati che all'occorrenza gli diano una mano, computer e tablet di ultima generazione, connessioni Internet con fibra ottica e una stanza tutta per sé in cui lavorare senza distrazioni. Ebbene, su una classe di 28 alunni, ce ne sono sette/otto che possono contare su tutte queste condizioni».

E questo al liceo Volta di Milano... «Certo» si affretta a rispondere Squillace. «Questa è la situazione in un liceo scientifico nel centro di Milano. Non voglio pensare che cosa accade in scuole con allievi meno fortunati». Conferma il sindacalista Sertori: «La didattica a distanza ha di fatto escluso una marea di persone: i bambini della materna e delle prime classi elementari, i disabili e gli stranieri. E ha fatto emergere le disparità socio-economiche presenti nel Paese».

La conferma viene dal fatto che nelle scuole paritarie la didattica a distanza non ha creato problemi. «Nella nostra realtà, non elitaria ma comunque relativa a un bacino d'utenza del centro di Milano, la didattica a distanza è stata efficace» spiega Marcello Bramati, preside del liceo classico Faes di Milano, una scuola che per la rapidità con cui ha attivato le lezioni online a marzo è finita su Time magazine. «Certamente la didattica a distanza non è paragonabile alla scuola in presenza (e occorrerà resistere a tentazioni di immaginare scuole digitali del futuro) né può essere considerata niente di più che una supplente in emergenza di quello che è la scuola, ma in condizioni critiche ha fatto il suo. I nostri liceali hanno aderito generalmente con spirito collaborativo e i docenti sono stati messi in condizione di iniziare rapidamente in ogni classe su supporti uguali per tutti, dopo una brevissima formazione. Alcuni ragazzi hanno dovuto condividere computer e connessioni con altri membri della famiglia, ma complessivamente siamo riusciti a gestire le lezioni con serenità, con qualche fatica e pochi incidenti di percorso».

Insomma, la didattica a distanza deve valere solo per le emergenze. E tutti concordano sul fatto che a settembre occorre riprendere quella in presenza. Per tornare in aula, però, il principio chiave da rispettare è il distanziamento sociale. Il documento sulle «misure contenitive nel settore scolastico», approvato dal Comitato tecnico-scientifico della Protezione Civile il 28 maggio, propone «misure di sistema, organizzative, di prevenzione e protezione, nonché semplici regole rivolte alle scuole di ogni ordine e grado statali e paritarie, per consentire l'avvio dell'anno scolastico 2020-2012». Come premessa, il Comitato ha preso in esame le misure adottate in alcuni Paesi europei dove, in virtù del fatto che l'anno scolastico dura più a lungo, hanno ripreso le lezioni in presenza.

In Belgio le classi devono avere massimo 10 studenti, con uno spazio di almeno quattro metri quadrati ciascuno. In Francia è previsto il distanziamento fisico di almeno un metro per allievo. In Svizzera la distanza minima è di almeno due metri. La Germania si pone a metà, con una distanza di almeno un metro e mezzo e gruppi di massimo 15 studenti per classe. L'Olanda ha adottato il distanziamento tedesco, ma ha previsto che gli alunni svolgeranno il 50% dell'orario in classe e il rimanente 50% a distanza. E la Spagna, che come noi riprenderà le lezioni a settembre, prevede una distanza interpersonale minima di due metri.

Per l'Italia, il Comitato tecnico-scientifico ha previsto «una distanza interpersonale non inferiore al metro». Questo, necessariamente, comporta più spazi. «Nella maggior parte delle scuole non ci sono spazi a sufficienza per mantenere tali distanze» spiega Antonello Giannelli, presidente dell'Anp (l'associazione nazionale dei dirigenti pubblici e delle alte professionalità della scuola). «Nelle grandi città la tendenza è di avere classi affollate, perché la marcata urbanizzazione degli ultimi decenni non ha previsto la costruzione di nuove scuole. Nel centro di Roma si fa ancora lezione in edifici del Cinquecento».

Aggiunge Daniele Barca, preside dell'Istituto comprensivo 3 di Modena: «Io ho fatto il preside a Piacenza e lì ci sono scuole in vecchi conventi. Molto del patrimonio scolastico è di origine ecclesiastica. Quando venne introdotta la scuola obbligatoria, si aprirono aule in parecchi edifici sequestrati alla Chiesa, soprattutto nei centri storici. Molta edilizia scolastica è poi degli anni Settanta, dopo l'introduzione della media unica obbligatoria nel 1962. Nell'ultimo decennio si sono costruite poche scuole, anche se molto interessanti dal punto di vista architettonico».

Gli edifici inadeguati portano spesso a spazi affollati, le cosiddette classi pollaio. «Quelle di sicuro a settembre dovranno sparire» sostiene il sindacalista lombardo Sertori. «Il dato standard per una didattica efficace dice che non ci dovrebbero essere più di 20 alunni per classe. Oggi alle superiori abbiamo classi con 32-33 studenti, per esempio negli istituti professionali, dove peraltro spesso si presentano condizioni di disagio».

Il preside del Faes Marcello Bramati concorda con il sindacalista della Cgil: «Ritengo che la qualità dell'insegnamento debba essere il cuore di ogni discorso sulla scuola. Aumentare il numero degli alunni per classe è sempre una risposta a un'emergenza economica, o di mancanza di personale, mai a un bisogno educativo, pertanto sono sempre favorevole a ogni iniziativa volta a contenere il numero di studenti per classe».

Bramati, che è anche collaboratore di Panorama, aggiunge: «Se la condizione presente richiede di intervenire sulle classi affollate per una questione sanitaria, si vada in questa direzione, cogliendo l'occasione anche in tempi difficili: è il momento di investire nella scuola per avere classi di 20 alunni, e non di 30. Auspico interventi strutturali in questa direzione, al di là della situazione temporanea che in estate andrà affrontata. La scuola ha i suoi tempi, lenti, e la sua importanza, grandissima: basta dedicare alla scuola la sola gestione delle emergenze».

Ma per eliminare le classi pollaio occorrono aule, che non ci sono. «Bisogna crearne di nuove» continua il sindacalista Sertori, «affittando spazi alternativi, come i cinema, gli oratori o (perché no?) le caserme dismesse». Samuele Tieghi, dirigente dell'Istituto comprensivo di Gravedona ed Uniti, che comprende 12 plessi scolastici distribuiti su sei Comuni in provincia di Como, ribadisce l'importanza della collaborazione con gli enti locali e con tutte le realtà sociali che potrebbero fornire strutture idonee. «A tale proposito, il nostro Istituto scolastico ha già contattato i sindaci dei comuni interessati per concertare un'azione comune» spiega il preside Tieghi. «Ricordo anche il problema dei trasporti scolastici, che inevitabilmente dovrà essere rivisto in funzione dei parametri di distanza». Conferma Emanuele Contu, dirigente dell'Istituto superiore Puecher Olivetti di Rho: «Alcuni sindaci della nostra zona stanno lavorando con gli oratori perché offrano i loro spazi alle scuole primarie e alle medie».

Come ha sottolineato il Comitato tecnico-scientifico, c'è anche la possibilità di insegnare all'aperto. Il 28 maggio, Panorama ha pubblicato il Manifesto delcomitato Benevento città dei bambini, che si propone di spingere le istituzioni ad aprire la scuola al territorio. Il progetto prevede di uscire dall'emergenza educativa, organizzando continuità didattica all'aperto e tutelando al tempo stesso la salute degli scolari. L'idea sta prendendo piede in tutta Italia. «A Modena stiamo lavorando sugli spazi aperti, gazebo a norma e coperture» interviene Daniele Barca, il preside dell'Istituto comprensivo che comprende 1.000 studenti fra i tre e i 14 anni. «Noi abbiamo la fortuna di avere attorno ai nostri plessi dei piccoli parchi che ci danno la possibilità di fare lezione fuori».

Emanuele Contu, che con Marco Campione ha appena pubblicato il libro Liberare la scuola (Il Mulino), fa una considerazione interessante. «L'emergenza potrebbe essere una spinta per liberare risorse e affrontare la questione del rinnovamento delle strutture scolastiche, non solo dal punto di vista edilizio, ma anche pedagogico: che non siano scuole progettate con in mente la didattica di un secolo fa» osserva il preside dell'istituto professionale, che comprende 1200 allievi, incluso un corso serale, e 180 docenti. «Oggi l'edilizia scolastica viene pensata avendo superato il concetto di rigida corrispondenza fra classe e aula».

Concetto che al tempo del Covid-19 è particolarmente obsoleto. «Quello dell'edilizia scolastica è un tema che si sarebbe dovuto affrontare tempo fa. In pochi mesi non ce la si fa» osserva il presidente dell'Anp Giannelli. «In Italia serve un piano integrato di ripensamento di tutta l'edilizia scolastica. Cosa che è stata fatta da tempo nei Paesi nordici».

Già, la Scandinavia. In Danimarca, per esempio, hanno riaperto le scuole materne ed elementari già il 15 aprile. Com'è possibile? «Perché hanno edifici nuovi» risponde Giannelli. «Con pannelli modulabili, grandi spazi comuni, luoghi all'aperto e mense fatte come si deve. E lo stesso fanno Svezia e Norvegia. D'altro canto, noi spendiamo per l'istruzione il 3,5% del Pil, contro una media Ue del 5%. E con Paesi tipo l'Estonia che superano l'8%».

(Continua: la seconda puntata domani 13 giugno alle 18)

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