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May 19 2015
La clamorosa assoluzione del tribunale di Rennes nei confronti di due poliziotti, accusati di «mancata assistenza a persona in pericolo»per la morte di Zyed e Bouna, due adolescenti rimasti folgorati dieci anni fa in una cabina elettrica mentre cercavano di fuggire dagli agenti a Clichy-sous-Bois, rischia di scatenare di scatenare una nuova fiammata di rivolta nelle banlieu parigine.
Il fatto che uno dei due poliziotti assolti stamani, Sebastien Gaillemin, 41 anni, abbia dichiarato allora alla radio della polizia, mentre i due giovani cercavano di scappare, che «se entreranno nella cabina elettrica, la loro vita non varrà molto» è ancora oggi una ferita aperta nel cuore delle comunità nordafricane parigine. Il «disgusto» per l'assoluzione, espresso dai parenti dei due giovani morti allora, è il «disgusto» di larga parte dei giovani sottoproletari delle periferie che hanno assediato il tribunale dove si è svolto il processo. E dove, non casualmente, sono riesplosi ieri gli scontri. Ma cosa accadde dieci anni fa? E c'è davvero il rischio di una nuova jacquerie simile a quella di dieci anni fa?
Era l'ottobre del 2005. Quella parte di Francia, che si cullava ancora nell'illusione integrazionista offerta dalla propria «diversità» rivoluzionaria e progressista, si svegliò bruscamente con i barbari sotto casa. I barbari erano - con grande sorpresa di tutti i media nazionali - tutti cittadini francesi di origine maghrebina nati e cresciuti nel Paese della Rivoluzione.
L'allora ministro dell'Interno Nicholas Sarkozy, all'indomani della morte di Zyed e Bouna, ebbe la malaugurata idea di chiamare quei giovani «teppaglia». Infiammata dalla benzina verbale di una classe politica miope e desiderosa di mostrare i muscoli, la «teppaglia» delle banlieu rispose senza mediazioni, né richieste negoziabili, solo con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Gli obiettivi furono le auto, gli autobus, le banche, i centri commerciali, persino un convoglio del treno e un'équipe della televisione di Stato: tutti i simboli di una società francese che ha continuato a promettere per decenni «egalité, fraternité, liberté» e che in realtà, a larghe fasce della sua popolazione, non è riuscita a offrire altro che un destino di precarietà e emarginazione che sfocia, oggi come allora, in un regime segregazionista soft, dove i due mondi - quello dei cittadini francesi cosiddetti perbene e quello dei giovani figli di immigrati - non solo non si parlano, ma non trovano nemmeno un vago canale di comunicazione. Dal 2005 a oggi, le cose non sono cambiate. È per questo che la classe politica francese dovrebbe mostrare un alto senso di responsabilità in queste ore, di fronte al concreto rischio di una nuova esplosione di violenze.
LE RAGIONI DELLE BANLIEUE
I protagonisti della sollevazione parigina di allora non erano tanto immigrati di primo pelo o sans papiers, come pure fu scritto per quietare la coscienza della cittadinanza francese. Né integralisti infiammati dalla propaganda paleoreligiosa dei mullah delle moschee o solo delinquenti ingrassati dalle mafie cresciute nella pancia della società parigina.
I protagonisti della jacquerie, che minaccia di reinfiammare tutte le periferie parigine, erano, con buon pace dei bourgois parigini, soprattutto cittadini francesi, nati da genitori immigrati in Francia anche negli anni 60, cresciuti in quartieri ghetto a contatto, come nel film L'Odio di Mathieu Kassowitz (1995), con identità radicate basate sul destino comune, sull'appartenenza etnica, sul rifiuto delle regole della società francese cosiddetta maggioritaria. Identità che si sono sviluppate e continuano a svilupparsi - quasi a insaputa di gollisti e sinistre - nel cuore e nelle viscere dello Stato dell'egalité e dei citoyennes. Il fallimento del modello francese di integrazione sta tutto qui. L'assoluzione dei due poliziotti è tutt'ora interpretata da larghe fasce della popolazione delle banlieu come una certificazione del razzismo di cui sono vittima i figli e i nipoti degli immigrati.
La rabbia dei giovani maghrebini e nordafricani, scrisse allora su Le Monde il sociologo Michel Wiviorka, «non nasce dallo sfruttamento del lavoro, ma dall'esclusione e dalla precarietà». Non c'era insomma, allora, tanto un problema di povertà materiale, perché nelle periferie parigine una vasta rete di economia informale e clandestina consentiva e consente a tutti, bene o male, di tirare a campare, di mangiare tutti i giorni, di vestirsi anche con marche alle moda, anche quando non c'è lavoro.
La rabbia delle banlieu - che minaccia di riesplodere - è la rabbia di chi si sente escluso, che subisce ogni giorno i controlli di una polizia (i «keufs») ai cui vertici, a oltre trent'anni dalle prime ondate migratorie proveniente dalle colonie, continuano a esserci prevalentemente i bianchi, per altro favoriti, a dispetto dell'«egalité» promessa, in tutti i concorsi pubblici. E se il tasso di disoccupazione nelle periferie è cinque volte la media nazionale, se per prendere in affitto una casa continua a essere quasi impossibile, se per ottenere un lavoro regolare o a contratto bisogna che caschi qualcosa dal cielo, il ghetto diventa una condizione cronica, una condanna sociale e psicologica perpetua, dalla quale è difficile, quando non impossibile, evadere, se non al prezzo di una nuova jacquerie.
RABBIA PREPOLITICA, RISCHI RELIGIOSI
Il vero problema delle banlieu è l'assenza di prospettive che vivono gli immigrati di seconda e di terza generazione in Francia. Ma non solo: il vero problema, al di là delle risposte militari che possono essere offerte per evitare una nuova devastante guerriglia urbana, è l'incapacità della politica francese di rappresentare e incanalare la rabbia dei giovani immigrati in un progetto politico nazionale minimamente spendibile. Persino quelle che un tempo erano le periferie rosse, dove i comunisti e i socialisti riuscivano a ottenere una maggioranza bulgara, sono ora diventate un deserto politico, dove attecchiscono solo l'economia illegale, un comune senso di appartenenza etnica e religiosa, una propaganda di facile presa dei predicatori islamici, come dimostra il caso dei fratelli Kouachi, autori degli attentati che hanno colpito al cuore la Francia un paio di mesi fa.
I francesi bianchi e poveri di queste periferie, spesso ex operai di sinistra ormai pensionati, si rifugiano tuttora, a loro volta, in un lepenismo difensivo, mentre gli immigrati di terza generazione, cittadini francesi come loro, si danno a ogni genere di traffico.
Così, la rabbia si fa pre-politica, spontaneistica, disperata: mancano appunto le organizzazioni capaci di mediare tra le richieste sociali diffuse e lo Stato. E il rischio, quando al disagio sociale non si dà uno sbocco, è quello che ha profetizzato allora il ministro degli Esteri francese, lo chiracchiano di ferro Philippe Douste-Blazy: «Demolita l'integrazione, in questi quartieri si diffonderà per disperazione un radicalismo basato sulla religione». Un'ipotesi che metterebbe la parola fine, una volta per tutte, sul mito della cittadinanza e dell'appartenenza nazionale.