Lifestyle
September 16 2015
C'è stato un tempo in cui Roma e Barcellona riuscivano persino a toccarsi per quanto erano vicine. Alleate nella ricerca continua del gioco perfetto, bello da stropicciarsi gli occhi, vincente da chiederne conto agli dei del pallone. Il Barca insegna, la Roma guarda e impara, così è perché ci pare. L'ambizione tutta giallorossa di farsi contaminare dal calcio spumeggiante degli extraterrestri catalani prende forma il 14 luglio del 2011 nel quartier generale di Trigoria. A Thomas DiBenedetto, nuovo azionista di maggioranza del club, il compito di dettare le coordinate del domani ("sta per cominciare una nuova era che cambierà il modo di fare calcio"), a Luis Enrique, ex totem del centrocampo in blaugrana, il primo miglio di gloria in un disegno che vale un sogno grande così.
"Io voglio un gioco d'attacco - spiegava l'ex tecnico del Barcellona B - voglio che i tifosi della Roma si divertano. Mi piace attaccare, mi piace il calcio di qualità e mi piace impressionare i tifosi. La Roma mi ha scelto per questo. Vedremo se i risultati ci daranno ragione". Dici Barcellona e pensi al suo enigmista. "Il paragone con Guardiola piace ai giornalisti, lo capisco. Io sono lontano dai successi di Guardiola e da quello che lui rappresenta. Non vengo qui per portare il modello del Barcellona". Alt, qualcosa non torna. Luis Enrique che chiude nel cassetto i segreti del calcio spaziale: possibile? "Il sistema di gioco dipende dalla qualitá e dalle caratteristiche dei giocatori. La base è una: tenere il pallone. Se la mia squadra gestisce il possesso del pallone, gli avversari soffrono. Quando la società ha deciso di prendere me, ha scelto uno staff di giovani con idee e valori". Questione di sfumature, tutto torna. La Roma giocherà con in testa l'idea di chiudere in un angolo gli avversari con un tiki-taka da far girare la testa. Barcellona è dietro l'angolo, forse meno.
Poi, il campo. Che in un amen incarta le speranze di conquista e le ripone in fondo al cassetto, nell'attesa di giorni migliori. Roma stropicciata dallo Slovan Bratislava in Europa League e battuta in casa dal Cagliari nell'esordio in campionato. Quindi il pareggio a Milano con l'Inter, fino all'uno a uno all'Olimpico con il Siena. La notte del 22 settembre, appena due mesi dopo l'investitura ufficiale, Luis Enrique era già in discussione. E, con lui, il gioco che portava in dote, promessa non ancora mantenuta e per questo oggetto di critiche di ogni forma e colore. Nel mezzo, le baruffe dialettiche con Francesco Totti - considerato dal tecnico giocatore tra i giocatori, non bandiera inviolabile - e un credo tattico, il suo, che non prevede sconti. Le coordinate da seguire, sempre le stesse: possesso palla, gioco d'attacco. Mentre la nave imbarca acqua e rischia d'affondare. E' un tornante infinito fino ai primi di dicembre. La Roma non ha mezze misure, vince o perde. E quando perde, perde male.
Luis lo spagnolo mostra il cuore e inforca la spada: "Non sono un marziano caduto da una nave spaziale - dirà il tecnico con l'orgoglio che da sempre l'accompagna - e non mi sento trattato come tale. Non chiedo ai miei giocatori cose incredibili, voglio solo un calcio propositivo, come tanti altri, lo fa anche Tesser al Novara. Poi ognuno ha le sue idee, e io ritengo che le mie si riveleranno vincenti. Finora i risultati sono stati un disastro, ma nel calcio può succedere di tutto". Ha ragione lui. Dal pari in casa con la Juventus (12 dicembre), comincia la primavera giallorossa. Cinque vittorie in cinque partite. Quindici gol fatti, due subiti. E' acuto meraviglioso che si trasforma tuttavia in un pianto nelle gare che seguono. Nulla è perduto, tuona il profeta del verbo catalano. E ai primi di marzo giura: "Resterò come minimo fino al termine del contratto (2013, ndr). Al minimo, perché sono un uomo di parola e la mia firma dice questo. Poi magari mi dovrete sopportare altri quattro o cinque anni".
Da Barcellona applaudono. "Per me ha fatto un lavoro straordinario", dice Pep Guariola al tramonto della sua avventura sulla panchina dei galattici catalani. Ma tra la Roma e Luis l'amore è finito senza possibilità alcuna di ripensamenti. A maggio, s'alza nel cielo di Trigoria il canto del cigno nero che voleva inquinare la capitale con la sua poesia. "Qui sono stato benissimo, ma a volte ci sarebbe bisogno di un po' di aiuto, di pazienza. E lo dico per chi verrà dopo di me, spero che non dovrà soffrire quel che è successo a me, anche se so che non c'è stato niente di nuovo. Me ne vado perché sono molto stanco, ho dato il 100% e quando uno lo dà non è mai un fallimento". Passo e chiudo. L'avventura in giallorosso dell'erede al trono che fu di Guardiola finisce nelle sabbie della malinconia. Roma gli gira le spalle: in fondo, non era poi un grande allenatore. Tempo due anni e il destino regala a Luis Enrique le chiavi dell'armadietto di Lionel Messi. Un ritorno a casa che sa di trionfo. Campionato, Coppa di Spagna e Champions League: è triplete. Tutto in una stagione. Poteva essere e non è stato: chiamatela, se vi pare, occasione mancata.