Roma degrado spazzatura
ANSA/ALESSANDRO DI MEO
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Roma, ovvero decaput mundi

L’ultimo è stato Matteo Salvini che nella Roma notturna, in pieno centro, si è imbattuto nella nuova diarchia romana: topi e gabbiani e sullo sfondo cumuli d’immondizia. Mancava solo il cinghiale per completare la scena romana. Sono i simboli estremi del livello di degrado romano oggi al top. Ormai sporcizia nei tg si dice in romanesco, monnezza. Rabbia e sconforto di vivere nella città più bella e più sporca del mondo con un sindaco che si stupisce se lo noti e grida al complotto... Ma al degrado di Roma si è riferito anche il Papa in Campidoglio.

Val la pena continuare a vivere a Roma? Te lo chiedi navigando tra i rifiuti, le buche, i rami e le stazioni metrò chiuse, gli sciami di migranti e mendicanti ovunque, il caos e i disservizi. Che Roma sia al suo ultimo stadio, lo confermano proprio le tangenti sullo stadio a uno di quelli che urlava «onestà, onestà». Più l’incuria antica dei romani e la loro filosofia cosmico-egoistica, «nun me po’ frega’ de meno». Ma se potessero, tanti romani andrebbero via dalla capitale e non solo i più giovani, anzi più gli anziani dei giovani. A Roma si vive sempre peggio, la città è sempre più ostile e sgradevole ai suoi abitanti.

Resta l’Amor-Roma, espressione rotonda e palindroma, il fascino di un luogo speciale, restano i ricordi storici e gli scorci magici, qualche magnifica serata, qualche glorioso mattino di luce e di azzurro, le vertiginose bellezze dell’arte e del sacro, lo sciupio di antichità e le prodigiose chiese, sparse per le strade e le piazze di Roma, la sfacciata santità di una città pur così perdutamente cinica e cazzara. A volte il brutto si distrae, s’addormenta o si concede qualche tregua. Ma Roma sta sempre più perdendo il suo cuore vitale, la sua anima carnosa, i suoi venti di ponente e i suoi angoli d’incanto. Tramonta quella magica coralità e quella affabile cordialità che ti faceva sentire integrato nel suo seno. Roma scivola nella marginalità, si fa periferia del mondo.

Però a pensarci bene, Roma non è mai stata davvero capitale d’Italia. Roma fu caput mundi ma non è caput Italiae. Per cominciare, da quando è capitale d’Italia non ha mai avuto un capo dello Stato romano. La Città eterna da cui si irradiò il diritto e l’imperium, lo Stato e la civiltà universale non ha mai espresso un capo dello Stato romano. Dopo i Savoia, piemontesi con ascendenza francese, abbiamo avuto 12 capi dello Stato: tre ancora piemontesi, tre napoletani, due sardi, due toscani, un ligure e ora un siciliano. Mai un romano (e nemmeno, per la cronaca, un milanese o un adriatico). Bisogna tornare all’antica Roma per trovare un re o un imperatore romano «de Roma». Le altre capitali europee hanno dato sovrani e capi di Stato alle loro nazioni; Roma, che forse è la più titolata e antica, mai. Ma non è solo un curioso dato statistico, una fortuita coincidenza.

In realtà Roma vive nel nostro Paese uno stato di vita apparente ma è morta da secoli. Al suo posto c’è una ciambella che fa da cuscino e da cornice superba a Città del Vaticano. È un crocevia di lazzi e di intrallazzi, con una gremita classe dominante e viaggiante che proviene da tutta Italia; ma il potere è altrove. Roma subisce l’Italia: subì Torino, dai Savoia alla Fiat, subì Milano, dall’economia e l’industria a Mediobanca, subisce leader, cordate e gruppi venuti dal Nord, dal Centro-Nord o dal Sud, ma a Roma il potere si esaurì nella gobba di Andreotti e poco più: le ere politiche della nostra repubblica, da quella degasperiana e togliattiana, saragattiana e nenniana, a quelle più recenti fanfaniana, morotea, demitiana e craxiana, berlusconiana e prodiana, montiana e renziana, e da ultimo grillina e leghista, sono sempre d’importazione. Perfino Mani pulite distrusse il potere a Roma ma il centro inquisito e inquisitore era a Milano. Insomma, Roma è il terminale, la coda (velenosa o alla vaccinara, secondo i punti di vista), ma non è il cuore né la testa dell’Italia. Anche i papi da un bel po’ non sono romani; da quando le antiche famiglie patrizie romane caddero in disuso, arrivano dal Nord o dal resto del mondo, come è giusto per la Chiesa universale; ma Santa Romana Chiesa è ormai da tempo tutt’altro che Romana, se non extracomunitaria. L’Italietta postrisorgimentale fu guidata da personalità tutt’altro che provenienti dal mielieu romano, da Crispi a Giolitti, da De Pretis a Zanardelli. E persino col fascismo, nato a Milano, la romanità fu fondata da un romagnolo che si ispirava a un abruzzese e a un toscano, e i suoi uomini più eminenti non erano romani. Ma che razza di capitale è? Il potere è romano di fama ma non di fatto. Tutti i grandi progetti politici, imprenditoriali e culturali nascono a Nord e muoiono a Roma, «decaput mundi».

Le rivoluzioni nascono altrove, qui finiscono in trattoria. Non solo la grande impresa, la grande industria ma anche la grande editoria, la grande moda, il grande teatro, il grande design, la grande arte e pensiero non sono in Roma. Del resto un Paese colonizzato come il nostro ha sempre riconosciuto la sovranità reale in altre capitali, da Parigi a New York, persino Mosca e ora Pechino. E ha sempre identificato il carattere nazionale come la media tra Milano e Napoli (o in subordine tra torinesi e siculi), ovvero tra l’efficienza nordica e la fantasia meridionale, lasciando a Roma solo il selciato, lo sfondo solenne e i sampietrini da calpestare. Insomma Roma appare come superflua e ridondante, una specie di ciliegina avariata sulla torta. Non fa la storia ma la patisce, da secoli, come le invasioni e le liberazioni, la breccia di Porta Pia fino ai torpedoni dei turisti. Sta lì, riversa sui sette colli, dolce e passiva e ti chiede con gli occhioni a cupolone: e mo’ che me fai?

E se fosse questa, la sua inesistenza o quantomeno la sua irrilevanza, la vera Questione Romana? Roma non esiste, è un mito e insieme una diceria.

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