Perché la Roma non ha perso l'Europa League (ma ha imparato)

Le lacrime che hanno accompagnato il finale della sfida di Budapest, con la Roma battuta e costretta ad abbandonare il sogno di vincere l'Europa League, sono l'immagine che resterà della stagione giallorossa. Il pianto di Mourinho e quello di Dybala, la delusione del popolo romanista che si era spostato in massa in Ungheria per accompagnare la squadra nell'ultimo viaggio europeo: flash di una notte che avrà una ripercussione anche sul futuro.

Non è mancato molto perché il finale fosse diverso e non solo perché la sconfitta è arrivata ad epilogo di una sfida infinita, prolungata oltre il normale perché durissima sia dal punto di vista fisico che tecnico. L'impresa è stata a un passo e se la Roma fosse arrivata a Budapest in condizioni normali sarebbe stata probabilmente portata a termine. Non è successo, i cambi hanno modificato il volto della partita e col passare dei minuti Mourinho ha via via dovuto rinunciare ad alcuni dei giocatori pilastro della sua squadra, chiudendo con ragazzi inesperti e poche scelte anche sul chi mettere nella lista dei rigoristi. Non una novità in una stagione che da marzo in poi è stata di pura resilienza e che solo con la guida di un tecnico di enorme carisma e capacità come il portoghese è potuta arrivare a giocarsi il secondo trofeo europeo in due anni.

Lezione numero uno: la Roma che verrà ha bisogno di forze fresche e di valorizzare al massimo il lavoro fatto sui giovani mettendogli vicino giocatori pronti all'uso. I Friedkin stanno facendo sforzi enormi e altri ne dovranno fare, perché la sconfitta ai rigori significa anche la rinuncia ai soldi della prossima Champions League, però la linea guida del prossimo mercato deve essere questa.

Poi c'è il discorso che riguarda Jose Mourinho e il suo futuro. Asciugate le lacrime, lo Special One è stato abbastanza chiaro e netto sul suo pensiero: non ha digerito la mancanza di confronto in inverno con la proprietà ed è stanco di recitare più ruoli coprendo le carenze altrui. Non può andare in guerra sempre e comunque da solo (anche se adora usare le parole come arma di costruzione del suo consenso) e vorrebbe che il club gli crescesse intorno anche e soprattutto sotto questo profilo.

Ha ragione? Certamente non ha torto. Gli si possono imputare alcune mancanze di campo, leggasi gioco di qualità limitata anche quando ha avuto la rosa a disposizione senza che fosse falcidiata dagli infortuni, non di aver spremuto tutto se stesso per rispettare il primo comandamento della sua carriera: vincere o provare a farlo. Le sue due (prime?) stagioni lasciano in eredità una mentalità che forse solo con Capello è stata conosciuta dal popolo romanista. Ne è nata una storia d'amore che ha riempito l'Olimpico con una serie di sold out da record.

Dunque, lezione numero due: Mourinho non potrà essere trattato come un allenatore qualsiasi perché non è un allenatore qualsiasi. E' Mourinho, da prendere pacchetto completo. L'impressione è che i margini perché resti e prosegua nel suo lavoro ci sono, ma bisogna che il contesto si adegui. Ad esempio, siccome è vero che la Roma avrà nei prossimi mesi dei vincoli stringenti di mercato a causa degli accordi sottoscritti con la Uefa, mancando anche il budget della Champions League, non è detto che JM non sia disposto a restare sulla barca. E' certo che servirà chiarezza su programmi e obiettivi, anche agli occhi dei tifosi.

Perché la Roma a Budapest non ha perso, ma ha imparato come si sta ad altissimo livello con continuità. Può ripetersi, ma deve disegnare la strada in maniera trasparente e attrezzarsi per assecondare il suo condottiero. Oppure decidere che è arrivato il momento di separarsi e, però, farlo senza dilapidare il patrimonio di questi due anni vissuti sempre puntando alla vittoria e mai scegliendo cosa inseguire e cosa no. Una rarità nel panorama del calcio italiano.

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