Roma e la mafia dei souvenir

Nelle strade immerse nelle bellezze di Roma, dove i turisti trovano souvenir e falsi oggetti di marca, immigrati del Bangladesh hanno creato una criminalità interetnica. Chi ha una bancarella deve pagare il «pizzo», altrimenti è violenza. E questo è solo uno dei nuovi fronti di malavita straniera che si sta allargando.

Sulla «Grande bellezza» volteggiano gli uccellacci neri del crimine. Non quelli di mafia capitale, né gli altri di romanzo criminale, ma rapaci di una insospettabile camorrìa d’importazione. Che si muove con le sembianze paciose e tranquillizzanti dei «bangladini» che, a Roma, sono sempre stati visti un po’ venditori di castagne e un po’ badanti. Finora. Un’indagine della Procura capitolina (con il pm Francesco Basentini) ha però scoperto il ghigno nascosto dietro la maschera del piccolo spaccio di quartiere. Una violenta e sanguinosa lotta, per la supremazia nel commercio del falso nelle storiche viuzze adiacenti la Fontana di Trevi, con tutto l’armamentario tipico del racketeer mafioso: dagli avvertimenti alle minacce fino agli agguati.

L’inchiesta di Piazzale Clodio ha portato ai domiciliari un uomo, Kabir S., e all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria di altri due presunti complici, Rasal M. e Uzzal H., accusati di aver intimidito e picchiato tre connazionali del Bangladesh che si sono rifiutati di pagare la tangente sulle bancarelle di via delle Muratte, a pochi passi dal capolavoro d’acqua e travertino disegnato dagli architetti Nicola Salvi e Giuseppe Pannini. Allestimenti di gadget e borse ricordo da rifilare ai turisti, abbagliati dal candore del marmo, in cambio di una banconota da 20 euro. La stessa cifra che i tre indagati avrebbero voluto incassare, due volte alla settimana, dalle vittime in cambio della tranquillità. Manco fossimo a Palermo o a Casal di Principe o a Bari vecchia. In un’occasione, si legge nella misura cautelare firmata dal gip Paola Della Monica, uno dei malcapitati è stato abbordato in un bar e «sequestrato» fino a una piazza vicina dove sarebbe stato probabilmente convinto con maniere ancor più spicce a dar seguito all’estorsione. La sua prontezza di riflessi l’ha però salvato. Non del tutto, comunque. Perché è stato ugualmente raggiunto e aggredito da un manipolo di bengalesi assai arrabbiati. Uno dei criminali gli ha quasi bucato un occhio infilzandogli il bulbo oculare con la punta di un ombrello materializzatosi, come rudimentale arma di guerra, nelle mani dei complici. In un’altra circostanza, un malvivente ha minacciato di sgozzare - con il collo di una bottiglia rotta - gli ambulanti recalcitranti se non avessero ubbidito al versamento della tangente.

La successiva denuncia e l’estrapolazione delle immagini delle telecamere adiacenti al Teatro Quirino hanno dato il via alle investigazioni. Si è così scoperto che tutti i bangladini indagati sono regolari sul territorio nazionale (con precedenti per ricettazione e falso) e due di loro hanno il permesso di soggiorno in via di rinnovo. Il caso è tutt’altro che chiuso con l’arresto di Kabir S., però. I tre non hanno agito da soli, ci sono almeno altri due tizi che li hanno spalleggiati e che, secondo l’accusa, potrebbero far parte della banda che ha lanciato un’«Opa delinquenziale» sul centro storico della Capitale. Una dinamica che assomiglia a quel che sta avvenendo più a sud, a Napoli, dove l’intelligence e gli uffici giudiziari più sensibili agli sciami sismici criminali sono in allerta per un fenomeno di erosione dei clan storici a vantaggio di nuove famiglie «straniere». In particolare a preoccupare è il ritorno di quel che furono i Marsigliesi, bande di rapinatori e trafficanti di sigarette operativi nel Golfo negli anni Cinquanta e Sessanta prima dell’arrivo di Raffaele Cutolo e della Nuova camorra organizzata.

«Oggi c’è un altro tipo di Marsigliesi», spiega a Panorama un esperto di sicurezza, «sono i nipoti di quelli del secolo scorso: metà francesi e metà algerini. Sangue misto. Stanno prendendo sempre più potere in città e in provincia nella gestione della droga e della prostituzione». A renderli quasi invulnerabili alle indagini è il dialetto masticato nelle comunicazioni. «Li intercettiamo ma non riusciamo a tradurre quel che dicono. Sono linguaggi contaminati dallo slang africano che pochissimi conoscono in Italia». È come vedere un fantasma e non riuscire ad agguantarlo. «Sono organizzazioni pericolosissime temute dagli stessi clan campani. Per ora hanno trovato una forma di collaborazione, ma tra non molto potrebbero iniziare a farsi la guerra». Lo scenario, insomma, prefigurato dagli esperti della Direzione investigativa antimafia che, nell’ultima relazione semestrale, hanno adombrato «una metamorfosi dei rapporti di forza tra mafie nazionali e straniere, sempre più orientate a forme di coesistenza funzionale, andando oltre alla mera convivenza». «Svariate attività investigative documentano la costituzione di alleanze strategiche e opportunistiche tra consorterie di diversa matrice, anche etnica, con gli esponenti di riferimento della criminalità organizzata autoctona, che fanno ipotizzare nuove tendenze e incroci criminali nel prossimo futuro». Un futuro, direbbero nelle banlieue francesi, dangereux. Pericoloso.

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