Rosso Istanbul: il tempo perduto e ritrovato di Ozpetek - La recensione
Ritorno in patria. Tra nostalgie, incubi, assenze e struggimenti. Ferzan Ozpetek riparte dal suo romanzo omonimo, autobiografico e dedicato alla madre (Mondadori) adattandolo generosamente ad un cinema per lui, forse, mai tanto introspettivo, dolente, misterioso e fantasmatico.
Rosso Istanbul, dunque (uscita in sala giovedì 2 marzo). Incroci e di date e di coincidenze non tanto casuali se è vero che il protagonista del film, come quello del libro, torna in Turchia dopo vent’anni di assenza e tanti ne sono passati da quando Ozpetek girò Il bagno turco. Un circuito di ritorni, di rimandi e giochi di specchi che sono anche un po’ l’anima di questa storia fatta di trasparenze e scorribande della memoria. Così, quando Orhan Sahin (Halit Ergenç) arriva a Istanbul da Londra dove ha passato il gran tempo in esilio volontario dopo aver scritto un volume di favole anatoliche per il quale è diventato famoso, la città lo avvolge in una nube pulsante e densa di impressioni. Rumorosa, assordante, “presente”. Insomma viva e partecipante come fosse un personaggio della storia che reclama il suo spazio nel mondo di Orhan. E non è che l’inizio.
Realtà e allucinazione
Lo scrittore è là da editor, per dare una mano a Deniz Soysal (Nejat Işler), un cineasta famoso che deve finire il suo libro, meglio, il libro della propria vita. Come fosse una gigantesca autolettura della mano. Dentro ci sono i fatti e le persone che appartengono al passato e al presente, alle amicizie e alla famiglia, agli odii e agli amori. Inevitabile la complicità progressiva e profonda che si stabilisce tra i due. Funzionale, empatica, necessaria, infine indispensabile.
Se non che, ad un certo punto e in capo ad una strana notte dove si mescolano realtà, sogno, allucinazione e torpore alcolico, Deniz sparisce. Da allora, per sempre. Lasciando Orhan in balìa di quegli eventi pieni di folla e di quella folla piena di eventi in un ensemble disorientante da comprendere e riordinare: tra la voglia di scappare da Istanbul e tornarsene a Londra e il poco resistibile, vischioso richiamo dell’universo di Deniz che incomincia ad appartenergli con sempre maggior consistenza fino all’estrema, quasi metempsicotica identificazione. E con le figure che, di quel libro (in)compiuto, sono al centro: la fascinosa Neval (Tuba Büyüküstün), il convulso umbratile Yusuf (Mehmet Günsur), la madre Süreyya (Çiğdem Selişik Onat).
Una metropoli “sospesa”
Presenze gelatinose, attaccaticce, “infettive” tanto quei personaggi sono coinvolgenti e penetranti. All’interno di una cornice metropolitana sospesa nel tempo, allo stesso modo di quella vecchia lignea casa rossa, dimora di Deniz sulla riva del Bosforo, acque placide tra le due sponde unite da un ponte ch’è sospeso come il tempo che va tra epoche differenti, illuminato dalle luci che si riflettono sull’acqua. Dietro, come le quinte di un palcoscenico, le sagome incerte di Istanbul che, più che vederla, la si sente. Urlante e risonante di clangori, sirene, traffico rombante, sintesi di una modernità interrotta d’improvviso, in una specie di tregua magica, dalla cantilena antica del muezzin che per una volta riesce a prendere il sopravvento.
Impossibile non pensare alla segreta commozione che accompagna in questa riservata, personalissima recherche del tempo perduto e ritrovato un autore sensibile come Ozpetek; e al suo impegno di regia e sceneggiatura (scritta con Gianni Romoli e Valia Santella) affinché queste lacerazioni e le loro derive psicologiche non prendano il sopravvento sul rigore narrativo, sulle necessarie evidenze ambientali, sui passaggi sociali di una città da anni protagonista di mutamenti, contraddizioni, inquietudini.
Il dominio dei sentimenti
Opera in parte riuscita, anche perché l’osservazione metropolitana non partecipa, evidentemente e in primo piano (mica dev’essere il documentario Istanbul ieri e oggi), alla costruzione di un racconto poggiato in prevalenza sui sentimenti e sulle caratteristiche “familiari” dei personaggi, con tutto il loro carico di simbolismi e di impulsi emotivi, generatori di una melanconia contagiosa e furtiva dominata spesso dall’assenza. Di figli per le madri e viceversa, di rapporti consolidati con la realtà, in definitiva di una linea ben marcata tra quella stessa realtà e la finzione. In un contesto speculativo (anche) squisitamente cinematografico.
Dimensione profetica e arcana
Il cinema e la vita, perciò. Concetto stagionato e forse banale, che conviene però applicare nella sua sostanza migliore e più pertinente alla creatività di questo autore. Il quale, negli slanci autentici e leali dei suoi film s’è mosso sempre con sincerità disarmante, mostrando larghe porzioni di sé. È l’autore, come dice ad un tratto Deniz a Orhan, che decide la vita e la sorte dei suoi personaggi. Ozpetek fa sua quest’affermazione di libertà e onnipotenza di stesura, quelle stesse che consentono a lui di mostrarsi quasi spiritualmente allo spettatore; e allo scrittore di sparire nella notte bosforiana lasciando che l’editor prenda il suo posto nei climi di un diffuso, intenso e privato lirismo: a partire da quella notte “magica” e allucinatoria dove comincia a prendere forma la dimensione profetica e un po’ arcana del libro di Deniz.
Il ritorno. O il suo contrario?
Un film autoreferenziale? Può darsi. Anche questa è la libertà che Ferzan Ozpetek si prende, magari attribuendo al revenir del suo rimpatrio un significato estensivo e universale, perfino nella corrispondenza contraria della scomparsa e della fuga. Tanto che viene il dubbio se egli voglia davvero ricordare o, piuttosto, far calare su di sé il grande coperchio dell’oblìo.
Un disegno complesso. Alla rappresentazione del quale concorrono gli attori turchi scelti dal regista, non molto noti da noi ma di sicuro peso internazionale. Tutti di grande studio e bravura, immersi nel profondo aquarium della storia. Accanto a loro la Sibel di Serra Yilmaz, presenza fedelissima e amuletica di Ozpetek, come lui diventata, adottivamente, “romana”.
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