Il presidente eritreo Isaias Afewerki (sinistra) e il premier etiope Abiy Ahmed (destra) a Juba, in Sud Sudan, il 4 marzo 2019 (Getty Images).
Dal Mondo
November 26 2021
«Mi sembra abbastanza ovvio che l'Eritrea punti a un indebolimento dell'Etiopia, che gioca a suo vantaggio». Il professor Uoldelul Chelati Dirar fa una lucida analisi della crisi chesta infiammando il Corno d'Africa, in cui gioca un ruolo chiave il suo Paese d'origine, l'Eritrea. In Italia dal 1975, Uoldelulè professore Associato di Storia e Istituzioni dell'Africa all'Università di Macerata. Lo storico risponde alle domande di Panorama dalla Svezia, dove sta tenendo un ciclo di lezioni nell'ambito di uno scambio universitario.
Qual è il ruolo dell'Eritrea nel conflitto scoppiato in Etiopia?
«È un ruolo complicato, direi anche un po' ambiguo. Si è delineato in modo sempre più esplicito a partire dal 2018, subito dopo la cosiddetta dichiarazione di pace fra Etiopia ed Eritrea del nuovo primo ministro Abiy Ahmed. Nel senso che si è creata una convergenza, all'epoca non molto chiara ma dopo è emersa nella sua chiarezza, fra l'interesse del primo ministro etiopico e quello del presidente eritreo. Abiy Ahmed desiderava guadagnarsi sfera di autonomia politica in un contesto in cui il Tplf (il Fronte popolare di liberazione del Tigray, ndr) fino a quel momento era stato egemone. Isaias Afewerki, dal canto suo, desiderava tornare, dopo essere stato per quasi 20 anni relegato in un cono d'ombra, a essere protagonista nella regione, contribuendo peraltro a mettere in un angolo i nemici storici del Tplf, con cui di fatto dal 1998 c'era una situazione di ostilità politico-diplomatica».
Quindi è tutto iniziato prima dello scoppio della guerra?
«Sul piano diplomatico, di fatto sì. L'apertura etiopica è stata importante ed encomiabile, nel senso che quella situazione di stallo non poteva continuare all'infinito. Ed era comunque un atto dovuto, sul piano del diritto internazionale, dal momento che l'Etiopia si era impegnata ad accettare il verdetto della Corte Internazionale di Arbitrato dell'Aia. Però non è mai stata approvata e formalizzata secondo i crismi delle relazioni internazionali, con delimitazioni e demarcazioni dei confini e definizioni delle regole sulle politiche doganali e sulle leggi sulle migrazioni. Niente di tutto questo. Sono state fatte generiche dichiarazioni d'accordo e d'intesa».
Ma Addis Abeba e Asmara non sono mai entrate nei dettagli di un accordo di pace?
«Nella sostanza nessuno finora ha visto i contenuti dell'accordo di pace. Si è detto che sono state istituite delle commissioni, addirittura sugli investimenti e sugli scambi commerciali. Però l'impressione, visto che nessuno finora ha avuto accesso alla documentazione, è che si sia trattato di un insieme di dichiarazioni d'intenti e di buona volontà, più che un'effettiva implementazione delle decisioni stabilite dall'accordo di pace. Le zone contese sono rimaste zone contese. E le regole sull'immigrazione sono rimaste confuse. È rimasto tutto un po' vago. Ciò faceva già trasparire un po' l'idea che forse non era quello l'obiettivo centrale dell'alleanza, perché altrimenti si sarebbe proceduto rapidamente e con rigore, visto che la guerra del 1998 era stata in parte determinata anche dall'ambiguità dei rapporti fra i due Stati. Secondo me, si è soprattutto tessuta una forte alleanza tattica per isolare la leadership del Tplf».
Intende dire che quegli accordi non avevano come obiettivo la realizzazione di un articolato piano di pace?
«Non sono così complottista. Quello che dico è che non ci sono stati accordi di pace. C'è stata una dichiarazione da parte dell'Etiopia di accettazione del verdetto della Corte internazionale di arbitrato, verdetto che era rimasto sospeso perché l'Etiopia si era rifiutata di accettarlo. La dichiarazione di accettazione sarebbe dovuta essere seguita da tutte le appendici formali: demarcazione e delimitazione dei confini, definizione delle regole sugli scambi commerciali, mobilità delle persone, legge sulle migrazioni... Tutto questo a tuttora non mi risulta sia stato formalizzato. L'unica novità tangibile sono i voli dell'Ethiopian Airlines che collegano Asmara ad Addis Abeba. C'era stata un'iniziale apertura dei confini di terra, però durata poco: i confini sono poi stati chiusi unilateralmente dall'Eritrea».
In altre parole, qual è la vera posta in gioco del riavvicinamento fra Etiopia ed Eritrea?
«Alla luce degli sviluppi a partire dal novembre 2020, questo riavvicinamento appare sempre più in funzione di un reciproco interesse: per Abiy Ahmed marginalizzare o comunque ridurre il ruolo centrale della leadership del Tplf nella politica etiopica e per Isaias Afewerki uscire dalla situazione di marginalità in cui era stato di fatto spinto e allo stesso tempo prendersi la rivincita nei confronti del Tplf».
Per sintetizzare: Abiy e Isaias avevano un nemico comune, i tigrini...
«... che li ha resi amici. Sì, questa sintesi può funzionare».
Ma Abiy ha preso il premio Nobel per la pace per questo?
«Non è la prima volta che il Comitato del Nobel prende una cantonata».
Questa è abbastanza clamorosa...
«È clamorosa perché è stata molto affrettata. Evidentemente non ha preso in adeguata considerazione lo spessore politico e anche il background di Abiy, che non è esattamente un pacifista».
Ma se gli accordi di pace non sono stati neanche stati implementati, non è bizzarro che gli sia stato dato il Nobel per la pace?
«Il Nobel gli è stato dato perché ha fatto un gesto che oggettivamente è apparso coraggioso, che andava contro quella che era stata la politica etiopica nei confronti dell'Eritrea a partire dal 2002. Era stato un gesto importante, che sembrava preludere nell'entusiasmo del momento alla possibilità di avere finalmente relazioni serene in tutta la regione. Dicamo che forse aspettare qualche mese sarebbe stato più prudente».
Per tornare ai rapporti Etiopia-Eritrea, di fatto c'è stata un'alleanza militare fra Abiy Ahmed e Isaias Afewerki.
«Sì, sì. C'è stata una chiara partnership, pianificata sul piano militare. Nel senso che, quando le operazioni militari sono iniziate nel novembre 2020, sono state condotte simultaneamente dall'esercito federale e dall'esercito eritreo contro il Tigray. Era chiaramente un'operazione non improvvisata, che aveva richiesto una lunga preparazione logistica: trasferimento di truppe, dispiegamento di artiglieria... Le testimonianze della popolazione parlano di cannoneggiamenti dal versante eritreo fin dai primi giorni degli attacchi. La verità è che l'esercito etiopico sarebbe andato in crisi molto presto se non fosse stato solidamente sostenuto e rinforzato in posizioni strategiche dai quadri eritrei».
Ma poi l'esercito etiopico è andato in crisi.
«Questo è un fatto che non viene adeguatamente preso in considerazione. Fino al 2018, per via del suo ruolo egemonico, in relazione all'incidenza demografica dei tigrini in Etiopia, il Tplf aveva un ruolo militare sproporzionatamente grande in Etiopia. I generali e gli apparati di sicurezza erano prevalentemente tigrini. Il primo ministro Abiy è stato avventato perché ha sottovalutato l'importanza della capacità strategica, puntando sulla quantità. È ovvio che l'esercito etiopico è uno dei più grandi del continente, ma senza una forte leadership militare è sostanzialmente inutile. Quindi allo scoppio della guerra l'esercito eritreo ha dovuto riempire queste falle nella capacità operativa dell'esercito etiopico, portando a quella che sembrava inizialmente una netta vittoria. A fine novembre 2020 il Tplf pareva messo in un angolo: Abiy diceva che la guerra era finita e che l'operazione era stata portata a termine rapidamente e in modo efficace».
E questo soprattutto per merito dell'Eritrea?
«Io sono uno storico: sono abituato a ragionare con i fatti in mano. Questi ora non li ho, ma penso che fra qualche anno, quando avremo accesso ai documenti, il ruolo dell'Eritrea sarà abbastanza evidente».
Perché? Gli eritrei in termini militari hanno una buona leadership?
«Mah... Hanno alle spalle 30 anni di guerra di liberazione, seguiti da una permanente militarizzazione dello Stato, con tutta la popolazione che fa il servizio militare e poi rimane sotto il controllo dell'Esercito per anni. È uno degli Stati più militarizzati del continente, paragonabile come efficacia militare solo al Ruanda. Indubbiamente aveva una capacità maggiore dell'esercito etiopico privato della leadership tigrina».
Poi perché le sorti si sono invertite? Come hanno fatto i tigrini a prendere il sopravvento e ad avanzare su Addis Abeba?
«Cos'è successo esattamente non lo so, non essendo sul terreno e non avendo fonti dirette. La cosa importante da dire è che questa guerra è stata oscurata. L'intera zona di guerra è isolata, inaccessibile ai giornalisti, tagliata fuori da ogni forma di collegamento, come Internet e il telefono. Per cui quello che arriva è filtrato dalla propaganda di entrambe le parti».
Ma lei che idea si è fatto?
«Credo che il cambio delle fortune di questo conflitto sia legato a un eccesso di autostima, quasi al limite dell'arroganza, sul versante etiopico ed eritreo che li ha portati a pensare di aver portato a casa il risultato. Ma a mio parere la cosa che forze ha inciso di più paradossalmente è stato l'eccesso di brutalità. Un conto è vincere una guerra, un altro è vincerla cercando deliberatamente l'umiliazione dell'avversario, ricorrendo a forme di violenza sui civili drammatiche: dallo stupro sistematico delle donne, alle esecuzioni di massa, alla distruzione delle infrastrutture... Paradossalmente questo brutale esecizio della violenza ha compattato la popolazione del Tigray attorno al Tplf molto più di quanto non lo fosse prima dell'inizio della guerra, dando quindi una legittimità a questo partito superiore a quella che aveva prima e soprattutto fornendogli un enorme serbatoio di reclutamento fra i giovani. Intere comunità sono dovute passare attraverso violenze inenarrabili. E questo nella storia della regione ha sempre galvanizzato le popolazioni attorno ai movimenti di liberazione».
Le voci secondo cui l'Eritrea voleva annettersi il Tigray hanno un minimo fondamento?
«Non lo so... Personalmente penso che siano sciocchezze. Io credo che l'interesse strategico fosse di uscire dall'ombra in cui era stata relegata di fatto dalla strategia tigrina sotto Meles Zenawi, il precedente primo ministro etiopico. In tal senso c'era la volontà di tornare a essere attori regionali forti, che è sempre stata la volontà del presidente Isaias Afewerki. Strategia che passava necessariamente attraverso l'indebolimento dell'Etiopia. E da questo punto di vista credo che il risultato sia stato raggiunto al 100%».
Indebolimento dell'Etiopia, non del Tigray?
«Del Tigray innanzitutto, ma la mia personale opinione che ci fosse il desiderio di indebolire l'Etiopia, al di là della retorica delle dichiarazioni ufficiali dell'Asmara che dicono che la stabilità dell'Etiopia è una priorità strategica fondamentale. E dovrebbe essere così. Di fatto la mia impressione è che di fatto un'Etiopia debole permette all'Eritrea di svolgere un ruolo che difficilmente potrebbe avere in un contesto caratterizzato da un'Etiopia forte, come è stato di fatto fino al 2018».
Cioè finché comandava il Tplf tigrino?
«Sì. Che fosse democratico o antidemocratico è un altro discorso (il Tplf è stato tutto tranne che un'organizzazione democratica), ma il livello di coesione politico-economico e militare che è riuscito a dare al Paese si è tradotto anche in una marginalizzazione deliberata dell'Eritrea con la quale era in attrito».
Quindi lei sta dicendo che Afewerki non ha fatto un favore ad Abiy Ahmed?
«Glielo ha fatto nel senso che ha contribuito a togliergli dai piedi, alemno inizialmente, un avversario pericoloso e non facile da eliminare. Ma io ho sempre pensato che fra i due chi aveva un progetto di lunga durata era Isaias Afewerki. E, per quanto possa immaginare io, il suo obiettivo era quello che ho detto: tornare a essere un attore importante nella regione, non più un paria, e allo stesso tempo quanto meno regolare i conti con il Tplf. In seconda battuta, un indebolimento dell'Etiopia per certi aspetti può essere utile all'Eritrea. Mi spiego meglio: dipende dalla logica con cui ragioniamo. In una logica di lungo periodo l'instabilità dell'Etiopia non può che tradursi nell'instabilità dell'Eritrea e dell'intera regione. Ma ragionando come ragionano i dittatori, in termini di sopravvivenza o comunque di mantenimento ad ogni costo di una posizione egemonica di potere, allora l'instabilità dell'Etiopia è un obiettivo che può avere un senso».
Anche perché Isaias Afewerki, avendo 75 anni, non ha una prospettiva di lungo periodo.
«È esattamente quello che dicevo. Il problema di queste figure dittatoriali è che molto spesso confondono il loro destino con quello del Paese».
Qualcuno dice che Abiy Ahmed è una marionetta nelle mani di Afewerki. Lei cosa ne pensa?
«Difficile valutarlo. Abiy è un grande comunicatore e questo sul breve periodo ha giocato a suo vantaggio: è riuscito ad abbagliare non solo la sua popolazione ma anche la comunità internazionale, tant'è che ha ricevuto il Nobel. Sul lungo periodo si sta rivelando una figura abbastanza inconsistente, con una assoluta assenza di coerenza politica e di capacità strategica. In questo contesto, con un personaggio come Afewerki, che fa politica da quando aveva 18 anni, ha sempre avuto posizioni apicali ed è al potere da 30 anni, di sicuro fra i due non c'è paragone. Forse definire Abiy una marionetta è troppo, ma dire che in una qualche misura sia finito in una trappola politica è abbastanza realistico».