Dal Mondo
May 31 2022
Alcuni generali sostengono, forse a ragione, che in Ucraina siamo all’inizio della cosiddetta «seconda fase» della guerra. Ossia che ci troviamo fondamentalmente a un ripetersi dello scenario già visto nei primi sessanta giorni di operazioni belliche, quando a un’avanzata russa e a un ripiegamento ucraino è poi corrisposta una controffensiva di Kiev. Azioni e reazioni che hanno portato le parti belligeranti a uno stallo, che non modifica in modo sostanziale i rapporti di forza sul campo. Un pareggio, per intendersi, che paradossalmente alimenta la guerra anziché frenarla.
Questa situazione di «equilibrio» dimostra che nessuno dei contendenti è in grado di conservare l’iniziativa delle operazioni belliche per più di due mesi: né Mosca né Kiev sembrano poter mantenere per più di qualche settimana la superiorità sull’avversario in modo da imporgli la propria strategia, obbligandolo ad azioni di tipo esclusivamente difensivo.
La battaglia per il Donbass, intanto, ha raggiunto la sua massima intensità. Le forze di occupazione russe sono ora impegnate lungo l’intera linea del fronte secondo una nuova tattica: bombardare le retrovie ucraine attraverso un uso massiccio e ininterrotto dell’artiglieria. Il Cremlino ha infatti compreso che avanzare con convogli di carri armati è inutile e controproducente, perché i mezzi di terra sono lenti e vulnerabili ai sistemi anticarro ucraini. Logorare il nemico a distanza tagliando le linee di rifornimento, invece, è ritenuto più efficace e meno rischioso.
Da qui l’idea di Washington Dc di inviare in Ucraina come contromisura, nuovi sistemi d’arma a corto raggio: pezzi d’artiglieria «made in Usa» che possono colpire con precisione sino a 300 kilometri di distanza, e dare così modo alle truppe ucraine di rifiatare e potersi riorganizzare per affrontare il nemico anche dalle retrovie. Si tratta più precisamente di sistemi di lanciarazzi multipli (Mlrs, acronimo di Multiple Launch Rocket System) e sistemi Himars (Migh Mobility Artillery rocket Sysyem), la cui manovrabilità consentirebbe agli ucraini di essere intercettati più difficilmente: si tratta, infatti, di obici montati su mezzi cingolati facili da condurre su qualsiasi tipo di terreno, che permettono lanci multipli in rapida sequenza.
Insomma, la Casa Bianca punta a rendere «pan per focaccia» ai russi, usando contro di loro i medesimi schemi attuati nelle ultime settimane dal generale Alexander Dvornikov, veterano delle operazioni in Siria le cui nuove direttive stanno permettendo a Mosca di assegnarsi piccoli ma costanti progressi. Anche se per adesso non si parla di pezzi a media e lunga gittata (in grado cioè di colpire oltreconfine): quello sarebbe un azzardo e una «linea rossa» per Mosca.
Tra le altre forniture che Kiev vorrebbe ma che Washington per adesso nega ai suoi protetti, ci sono in ballo anche gli aerei da caccia: quei Mig-29 parcheggiati in Polonia che ancora non hanno effettuato alcun volo sopra il territorio ucraino. Anche il loro impiego è considerato dal Pentagono come l’ultima risorsa da assegnare a Kiev, prima di considerare un’ulteriore escalation.
Le riluttanze degli Stati Uniti – che ormai sono di fatto il vero e proprio deus ex machina della resistenza ucraina – si devono anche all’evidente necessità di dover addestrare i piloti prima di poter avallare l’uso di armi così rilevanti nel teatro di guerra dell’Europa orientale. Senza considerare che uno sconfinamento in territorio russo anche di un solo pilota ucraino o di un solo missile provocherebbe reazioni dalle proporzioni impredicibili.
In ogni caso è evidente che, stando così le cose, nel lungo periodo la disparità di forze in campo finirà per premiare l’ostinazione e l’accanimento della Russia. Per una serie di fattori: Mosca non combatte sul proprio territorio, non patisce stragi dei propri civili e non vede distrutte o anche solo minacciate le proprie infrastrutture. Ma, soprattutto, ha dalla sua il vantaggio del tempo: può permettersi di ruotare le proprie unità anche ingaggiando milizie straniere (mentre i soldati ucraini sono già oggi impegnati fino all’ultimo uomo nella difesa della patria); può attingere ad arsenali ancora mezzi pieni di armi e munizioni, per quanto obsolete (mentre Kiev deve affidarsi al buon cuore di Usa e Ue per garantirsi rifornimenti costanti, peraltro sempre più difficili da gestire logisticamente); può, con la bella stagione, inasprire le operazioni fino a che il freddo non impedirà nuovamente i grandi spostamenti delle sue armate.
Inoltre, non deve tenere di conto della propria opinione pubblica, essendo ormai il regime putiniano indistinguibile dallo Stato federale (a differenza degli ucraini, sempre più fiaccati dalla fame e terrorizzati all’idea di finire in mano ai russi). Men che meno deve tenere conto dell’opinione pubblica internazionale, potendo ancora vantare alleanze politiche trasversali che vanno dall’Ungheria alla Serbia, fino a insospettabili interessenze filorusse di personaggi infiltrati da decenni in molte cancellerie europee e occidentali (che, attraverso il loro temporeggiare diplomatico, garantiscono al Cremlino quell’agilità di manovra preziosa sotto ogni punto di vista, in primis economico).
Vladimir Putin può insomma andare avanti ancora a lungo – almeno un paio d’anni, secondo i servizi segreti britannici – a logorare le difese ucraine, a rosicchiare ettari di terreno, ad annettere villaggi e piccole città, a depredare materie prime come il grano e l’acciaio, a disintegrare infrastrutture. E tutto questo anche al prezzo di migliaia di soldati russi (più o meno qualificati, ma comunque disponibili) che vengono gettati in battaglia come si gettano le sementi nei campi pur di poter dichiarare un giorno la sua «vittoria».
Proprio per questa ragione, Zelensky accusa la Nato di non fare abbastanza e chiede quotidianamente sforzi maggiori e più celeri. Intanto, tratta sottobanco una tregua con Mosca che dia respiro alle sue truppe, consapevole che il loro morale è comprensibilmente basso dopo oltre novanta giorni di battaglie violente e bombardamenti incessanti. Ed ecco la ragione della visita del presidente ucraino nella città di Kharkiv appena riconquistata: raccontare che la resistenza va avanti, come di fatto accade ma a prezzi sempre più alti in termini di vite umane. Per quanto ancora potrà farlo, è la domanda che tutti si fanno. A cominciare da Mosca stessa, la cui élite al potere sembra prigioniera di un copione che non avrebbe voluto dover interpretare.