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September 03 2018
Matteo Salvini è tipo a cui piace il rischio. Gioca, sempre e comunque, al rialzo: con Silvio Berlusconi, con l'Europa e, ora, anche con la magistratura che gli contesta il reato di sequestro di persona (con il rischio di una pena edittale di decine di anni) per gli immigrati che sono stati confinati per giorni e giorni sulla motovedetta Diciotti. "In fondo" ripete con il tono della sfida il vicepremier "cosa mi possono fare? Al massimo togliermi la casa!".
Proprio questo coraggio ha permesso al leader leghista di conquistare un personaggio burbero come il ministro per i trattati europei, Paolo Savona, il teorico del cigno nero, cioè della possibilità concreta di portare l'Italia fuori dall'euro: "Matteo non ha paura di nessuno".
Una qualità, quella del coraggio che sconfina nella temerarietà o, addirittura, nell'incoscienza, che proprio per questo in alcune occasioni può trasformarsi in un boomerang: Salvini, infatti, non conosce la marcia indietro; o meglio, per innestarla deve essere proprio nei guai. Se si conosce il suo temperamento, si arguisce, quindi, che difficilmente il leader del Carroccio si tirerà fuori dal rapporto con i grillini o, per dirla più semplicemente, modificherà la sua strategia politica. Anche perché non è nella natura del personaggio ammettere uno sbaglio, non è nelle sue corde.
Salvini non è concavo e convesso come il Cav. Semmai ricorda l'altro Matteo della politica italiana, anche se ogni volta che lo accostano al bullo fiorentino, il ganassa milanese mette le mani avanti: "Io a differenza di Renzi ho i piedi per terra. Anzi, qualora perdessi il senso della realtà ho chiesto ai miei di farmelo riacquistare, con le buone o con le cattive". Discorsi di rito, anche perché spesso i suoi, a parte qualche raro esempio, per emulare il capo sembrano più salviniani di lui. Ecco perché, al netto di una possibile batosta elettorale o di un fattore esogeno (una tempesta finanziaria sull'Italia scatenata dai mercati internazionali), l'attuale equilibrio politico non sarà messo in discussione dalla Lega.
Del resto le due anime del governo, quella leghista e quella pentastellata, un loro equilibrio lo hanno individuato: con il premier Giuseppe Conte relegato al ruolo di comprimario, chiuso nel limbo di Palazzo Chigi, Salvini e Di Maio hanno disegnato le loro sfere di influenza, basandosi sulle loro competenze ministeriali.
Come spiega Claudio Borghi, una delle teste pensanti del nuovo corso salviniano: "Sui nostri argomenti loro non ci danno fastidio e noi abbiamo lo stesso atteggiamento sui loro. Insomma, è l'equilibrio del non pestarsi i piedi". Un equilibrio che per ora funziona: le polemiche e i punti di vista diversi non mancano dentro la maggioranza, ma si tratta sempre di scosse di assestamento che non terremotano il governo. Semmai questo processo sta cambiando il Dna sia dei leghisti, sia dei grillini.
Sul decreto dignità, Salvini e i suoi hanno fatto orecchio da mercante di fronte alle proteste di un pezzo importante del loro elettorato, gli imprenditori del Nordest. Sulla tragedia di Genova il leader leghista ha accettato di discutere la possibilità di una nazionalizzazione della società Autostrade, rompendo un tabù nel Carroccio che da sempre considera l'intervento dello Stato in economia un mezzo sopruso. Più o meno la stessa cosa sul taglio alle pensioni d'oro. È probabile che questi temi rimarranno per aria o saranno declinati in maniera diversa, ma già solo l'idea di accettare di parlarne, dimostra che sull'altare del governo la Lega sta sacrificando pezzi della sua identità.
Più o meno la stessa cosa sta facendo l'anima governativa dei 5 Stelle: sull'immigrazione il presidente della Camera, Roberto Fico, esponente di punta dell'ala più attenta ai temi di sinistra del movimento, è rimasto isolato, gli è stato concesso solo il ruolo di profeta disarmato; ma anche nello scontro tra Salvini e i magistrati, Di Maio e il suo stato maggiore hanno solidarizzato con l'alleato. Le poche parole in difesa dei giudici sono apparse più come un atto dovuto che non convinto, specie se si parte dal presupposto che i grillini negli anni scorsi hanno fatto del giustizialismo una vera ideologia.
Insomma, l'esperienza di governo sta cambiando i due movimenti nel profondo. "Noi nel decidere l'alleanza con i grillini" svela in un moto di sincerità Borghi "ci eravamo fatti due conti: se avessimo fatto la coalizione di centrodestra, avremmo avuto a che fare con due opposizioni, quella del Pd e quella grillina. Una tragedia. Ora, con i grillini sulla nostra stessa barca: abbiamo contro l'opposizione spompata del Pd e le tv di Berlusconi. Chi se ne frega, son cose che danno meno pensieri!".
Più si va avanti e più sembra che la scelta leghista sia senza ritorno. Processo che preoccupa non poco gli ex-alleati di Forza Italia. "Questo è un governo" rincara la dose Renato Brunetta "illegittimo ed eversivo. È un sodalizio che si basa solo sul potere, che sta trasformando i due contraenti in mutanti. Solo che mentre i grillini non avevano identità, non avevano cultura, erano solo rabbia, i leghisti una loro identità, una loro storia l'avevano. E un connubio nato da questo processo degenerativo rischia di terremotare le nostre istituzioni".
Preoccupazioni che nascono anche da un'analisi pessimistica del futuro. Forza Italia e il Pd, anche se per motivi diversi e con prospettive diverse, possono puntare solo su un'opzione: il fallimento dell'esperienza di questo governo o per riportare Salvini nell'alveo del centrodestra (Berlusconi), o per recuperare al Pd una parte dell'elettorato finito con i grillini (Renzi).
La coppia di fatto, Salvini e Di Maio, ha, invece, due opzioni. La prima: attraverso il governo può lanciare un'Opa sul centrodestra, modificandolo a sua immagine e somiglianza. La seconda: può ripetere lo stesso gioco a sinistra, trasformando definitivamente il Pd in una forza marginale. In alternativa, se l'impresa si dimostrasse ardua, leghisti e grillini potrebbero anche mettere in piedi una coalizione gialloverde in pianta stabile. "Potremmo andare avanti per venti anni" confida un altro economista arrivato alla corte di Salvini, Armando Siri. "Loro nel ruolo che un tempo aveva la Democrazia cristiana; noi in quello più dinamico e modernizzatore proprio del Psi degli anni '80".
Nelle ultime mosse sia di Di Maio, sia di Salvini si vedono i contorni di questo disegno. Il vicepremier grillino con l'intervento sul mercato del lavoro contenuto nel decreto dignità, o, ancora, con i discorsi sulle nazionalizzazioni delle grandi concessioni pubbliche, dalle autostrade alle telecomunicazioni, ha fatto l'occhiolino alla parte più tradizionale della sinistra (quella che non sopporta Renzi). Salvini, invece, ha solleticato gli umori più profondi della destra sull'immigrazione, ha ventilato un'alleanza di tutti i sovranisti a livello europeo (l'incontro con l'ungherese Orbán lo dimostra) e, addirittura, ha fatto proprio uno dei temi più cari al Cav, una riforma della giustizia contro la componente più politicizzata della magistratura.
Una strategia che li porterà entrambi ad imboccare anche la strada di un braccio di ferro con la Commissione Ue sulla legge di bilancio: per realizzare, almeno in parte, le loro promesse elettorali, i due, infatti, saranno indotti a sforare il parametro del 3 per cento. In sintesi: Di Maio e Salvini sono alleati, ma nel contempo lavorano per essere i campioni di una possibile alternanza. Un disegno ambizioso e insidioso, che ha un solo punto debole che lo rende velleitario: immaginare che l'Italia possa ricattare o fare a meno dell'Europa che conta. "Con i giusti toni, anche decisi, puoi convincere l'Europa a cambiare" è il pronostico di Berlusconi, "ma pensare di restarne fuori o di conquistarla con le cattive è una scommessa folle. Io ne so qualcosa".
(Articolo pubblicato sul n° 37 di Panorama in edicola dal 30 agosto 2018 con il titolo "Sfida continua")